Il Fundraising è Trasformativo
Chi dona e perché dona

Il fundraising è trasformativo

Ho dedicato una carriera professionale di più di 20 anni all fundraising. Perchè? Perchè credo che fare fundraising sia un mezzo per  trasformare la società.

Si tratta di un mezzo, non di un fine. Del mezzo con cui le organizzazioni nonprofit perseguono le loro mission.
Per motivare questa affermazione, in questo articolo vi propongo un ragionamento che parte dal concetto di consumo, per passare da quello di donazione e arrivare infine a quello di comunità.

In estrema sintesi, parleremo di come il consumo estremo crei un volano negativo negli individui, di come felicità e ricchezza siano messe in relazione nel modo sbagliato. E come il tema della donazione, della relazione e della comunità si ineriscono in questo scenario.

Cosa troverai nell'articolo

Il fundraising per cambiare la realtà

Il fundraising fa paura?

Se ci prendessimo anche solo un istante a immaginare qualcosa che ci fa paura, a cosa penseremmo? Quali sono le cose che ci spaventano di più?
Alcuni di noi probabilmente inizierebbero a fare una lista con serpenti, ragni, forse parlare in pubblico, cenare con i suoceri o tanto altro.

Ma forse è l’idea di fare fundraising la cosa che ci accomuna tutti. Il pensiero di chiedere soldi a qualcuno o, di essere invitato a dare soldi, è per la maggior parte di noi terrificante.

La mia storia nel fundraising

L’inizio – il volontariato in università

All’età di vent’anni ho iniziato a occuparmi di raccolta fondi e di cause senza scopo di lucro facendo iniziative culturali all’epoca dell’Università.
A quel tempo, la suddivisione dei compiti fra noi universitari era molto semplice: chi faceva Lettere e Filosofia, pensava all’incontro, lo presentava, faceva le domande e gli interventi, in altre parole svolgeva tutto il lavoro “importante”. Mentre chi, come me, studiava Economia e Commercio, cercava gli sponsor per pagare i costi dell’iniziativa.
Poi ho continuato anche dopo l’Università e, nella mia vita professionale mi sono sempre occupato di cercare soldi per le cause e le cose che mi stavano davvero a cuore.

La carriera – formare le persone per raccogliere fondi

Alla base di ogni buona causa che ho incontrato nella mia vita, c’è sempre stata la questione del denaro e di come fare per trovare i soldi per finanziarla.

Dopotutto, se non ci sono i soldi, si può fare ben poco.

Questo lavoro mi ha poi portato al mio impiego attuale come educatore di fundraising attraverso la creazione e direzione del Master in Fundraising (che esiste ormai da 20 anni e ha formato oltre 500 persone).
E ad aver fondato, da quasi 15 anni, il più grande evento italiano sul fundraising (e il quarto più grande del mondo) nonché il secondo appuntamento sulla raccolta fondi più frequentato in Europa, ovvero il Festival del Fundraising. Un evento innovativo di tre giorni che dal 2007 ad oggi ci ha permesso di conoscere complessivamente 5 mila fundraiser e circa 86 mila organizzazioni con le quali abbiamo affrontato e affrontiamo, di anno in anno, la sfida di fare raccolta fondi.

Il fundraising, un mezzo non un fine

Eppure, se fare fundraising può apparire a volte terrificante, io sono dell’idea che sia un potente mezzo per cambiare la realtà, per trasformare la società.

Il fundraising è trasformativo. E’ il mezzo, e non il fine, attraverso cui le organizzazioni nonprofit perseguono le loro mission.
Rispetto a questa idea, vorrei proporvi un piccolo percorso che si snoda su tre concetti chiave: Consumo, Contributo (donazione) e Comunità.

E’ attraverso l’analisi di questi concetti che capiremo insieme perché il fundraising è trasformativo.

Consumo

Osservare, ottenere, omologarsi

Iniziamo dalla parola Consumo.

Attualmente consumiamo il doppio dei beni materiali rispetto a cinquant’anni fa.
Secondo alcuni studi, ci sono circa 300 mila oggetti in una casa media americana e, secondo alcune stime, (ad esempio quella di Annie Leonard in The Story off Stuff), il 99% delle cose che acquistiamo vengono buttate via in soli sei mesi.

Quando il confronto genera consumismo

Ma cosa guida questa corsa al consumo? Il Confronto.
“Se tu hai quell’oggetto, forse dovrei averlo anch’io”.
E, se entrambi lo possediamo, “non diventa quindi uno ‘standard’ che tutti noi dovremmo avere?” 

Consumo

Questo porta a una forma mentis che si potrebbe definire in questo modo: “Osservare e ottenere”.

Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein nel loro testo “La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità”- 2018, spiegano come le influenze sociali operano sul comportamento umano.
Essi sostengono che gli umani sono facilmente pungolabili da altri esseri umani e la ragione principale di questo è che alla maggioranza delle persone piace essere conformista.
Il motivo? Siamo costantemente assillati dal desiderio di non cadere nella disapprovazione altrui e il nostro giudizio si modifica sotto le continue pressioni del nostro gruppo di pari.

Ma la cosa sbalorditiva che i due autori hanno inteso evidenziare è, che le recenti ricerche condotte attraverso le tecniche di functional neuroimaging, confermano che l’adozione di una posizione conformista da parte degli esseri umani dipende in gran parte dall’osservazione della realtà conforme alla visione degli altri.

Consumare per omologarsi

Pare che gli individui vedano le cose esattamente allo stesso modo di come queste sono viste dai loro simili. Quindi, non solo “Osservare e ottenere”, come dicevamo prima, ma ci spingiamo oltre, omologandoci, non più solo nei costumi ma bensì anche nel pensiero. In altre parole, siamo ormai disposti a ignorare l’evidenza stessa dei nostri sensi.

I social network - il confronto al cubo

Sulla rivista Journal of Social and Clinical Psychology, sono stati pubblicati gli esiti di uno studio sperimentale su Facebook, Instagram e Snapchat che dimostrano una relazione causale tra il tempo trascorso sui social network e un calo del benessere psico-fisico.
L’utilizzo eccessivo delle piattaforme multimediali implica un aumento del rischio di solitudine e depressione. Come concludono gli esperti: “E’ ironico, ma forse non sorprende, che la riduzione dell’uso dei social media, che hanno promesso di aiutarci a connetterci maggiormente con gli altri, aiuta invece le persone a sentirsi meno sole e depresse”.

La colpa di questo non è però attribuibile ai social network in sé e per sé, ma piuttosto al modo in cui questi vengono utilizzati.
Quando scorriamo decine d’immagini dei nostri amici che sembrano vivere delle vite bellissime e incredibili, come può non nascere in noi la sensazione che “Forse non ho tutto quello che dovrei avere, come invece hanno loro”.

Il surplus

L’organizzazione nonprofit The Self Storage Association, ha calcolato che 1 americano su 10 affitta un box per metterci cose “in più”.
Il che vuol dire che siamo ben oltre 300.000 oggetti che entrano in una casa americana media.

Oggetti In Più

Gli Stati Uniti hanno più di 50 mila strutture di stoccaggio, più di cinque volte il numero di Starbucks.
Attualmente, ci sono circa 3 metri quadrati di spazio per ogni uomo, donna e bambino. Più cose, più stoccaggio.
E se si ha la fortuna di guadagnare tanto si può acquistare un’altra casa, in un altro luogo, dove trascorrere solo pochi mesi l’anno e poterci infilare altri 300.000 oggetti.

Ricchi e felici?

Siamo caduti in questo loop: confrontare e consumare, confrontare e consumare, confrontare e consumare, comprando, o tentando di comprare, qualsiasi cosa passi sotto i nostri occhi.

Eppure questo non ci rende più felici. Come mai?

La felicità è la piacevole sensazione che scaturisce dalla constatazione della miseria altrui

Ma è davvero così? 
Se quei beni che ci ostiniamo ad acquistare, spinti dalla volontà di affermarci, ci rendessero davvero più felici, per quale motivo ce ne liberiamo dopo pochi mesi?
Non dovrebbero forse diventare beni senza cui non potremmo vivere per essere felici?

Ricchezza, lavoro e felicità

Nel 2006, la rivista Science ha pubblicato un articolo che intitola: “Would you be happier if you were richer? ”. Gli autori della ricerca suggeriscono che l’idea diffusa che a un elevato reddito corrisponde un più alto livello di felicità, è frutto di un’illusione.
Da un reddito più elevato dipende un maggior livello di soddisfazione, ma non di felicità.
Gli aumenti del reddito hanno un effetto sulla felicità solo temporaneo.

Gli studiosi dimostrano che le persone più ricche dedicano meno tempo alle attività da cui traggono piacere, probabilmente quelle da cui dipende maggiormente la loro felicità, e maggiore a quelle attività che gli procurano livelli più elevati di stress e ansia.
Si potrebbe contestare che il raggiungimento dei propri obiettivi è spesso accompagnato da tensioni elevate. Questo è vero.
Ma una volta raggiunti i nostri obiettivi ciò che aumenta è la nostra soddisfazione non la nostra felicità.
Dalla ricerca emerge che la volontà di aumentare il proprio reddito dipende in gran parte da previsioni esagerate sulla felicità futura che potrebbe derivare da quell’aumento.

E’ dunque evidente come l’effetto che un aumento del reddito ha sulla propria felicità tenda a diminuire nel lungo periodo poiché le persone, passato il momento iniziale, ritornano a focalizzarsi su aspetti meno “nuovi” della propria vita. Come sostengono Kahneman e Schkade: “Niente nella vita è tanto importante quanto quello che pensi mentre lo stai pensando”.

E’ alla luce di questi studi che appare sbalorditivo il fatto che il confezionamento e la vendita sistematica della felicità è un business che si stima valga annualmente più di dieci miliardi di dollari.

Il mio test sulla “felicità da consumo”

Ecco allora che ritengo utile riportare un esempio accaduto qualche mese fa.

A settembre 2018 sono stato alla Columbia University per il mio ciclo di lezioni sul fundraising e ho voluto provare l’esperienza del consumismo fino in fondo. 
Era il giorno dell’uscita del nuovo IphoneXS e ho deciso di mettermi in fila. Volevo capire cosa prova una persona che sta due ore, se non un giorno, in fila, per essere il primo ad avere un nuovo modello di Iphone.

Intendiamoci: un telefono che avrebbe potuto comprare in pochi minuti solo qualche giorno dopo.
Ho fatto quasi due ore di fila, ho parlato con i miei compagni di avventura e, non appena comprato finalmente il nuovo Iphone, la commessa si è rivolta a me con una frase che mi ha spiazzato: “Allora oggi è davvero un gran giorno per te! Hai un nuovo telefono! Ma ti rendi conto? Sei eccitato?”.
E io non ho potuto fare altro che rispondere “Yes, I am”, più che altro per non demoralizzarla.
Non ero affatto eccitato, era come il mio vecchio telefono, solo più nuovo. Che differenza c’era? Nessuna.

Emozioni, decisioni, consumo e felicità

Nel suo libro, “The Happiness Hypothesis[15], Jonathan Haidt presenta un esempio davvero eloquente delle nostre emozioni e della nostra mente e ci dà questa metafora.

Le nostre emozioni sono come un elefante e la nostra mente è come uno scrittore che vuole spiegare la presenza dell’elefante nella nostra vita. L’elefante è talmente ingombrante che non si può davvero evitare, e la nostra mente, non può far altro che razionalizzare queste emozioni, giustificandole. Siamo caduti in una trappola in cui le emozioni che viviamo, osservando un orologio nuovo, un’auto più bella o il modo in cui la vita di chi ci sta intorno è strutturata, diventano, grazie alla mente, qualcosa di cui “abbiamo assolutamente bisogno” e senza cui “non possiamo davvero farcela”.

L’emozione ci convince e, attraverso la ragione, giustifichiamo la nostra convinzione.

Capita a me, che conosco questi meccanismi e che li uso per fare fundraising, capita ai miei figli che sono molto meno allenati di me a resistere all’impulso dell’acquisto.

Qualche mese fa, mia figlia, la più piccola, se n’è uscita con la frase: “Babbo, ho bisogno di un Iphone”. Notate che non ha usato il termine “vorrei un Iphone”, no, ha proprio detto “ho bisogno”. Perché ha usato questo termine?

 

Il valore economico delle emozioni

A tal proposito, una ricerca italiana ha tentato di monetizzare il valore dei sentimenti e delle emozioni degli italiani.
La ricerca ha dimostrato come spesso (più del 70% dei casi) l’acquisto di beni materiali veicoli le emozioni umane. Solo il 22% delle emozioni è invece veicolato da esperienze, come una cena fuori o un viaggio.

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Non sono mai stati spesi così tanti soldi prima d’ora per cercare di catturare la nostra attenzione. Per ottenere quella che Alberto Contri ha magistralmente definito, “L’era della Costante Attenzione Parziale” .

E anche in questo preciso momento, ognuno di noi ha un piccolo oggetto in tasca pronto per catturare la nostra attenzione e, possibilmente, farci consumare qualcosa nei prossimi minuti o quando saremo pronti per farlo.

Cerchiamo, attraverso il consumo sfrenato, di raggiungere la felicità, senza accorgerci però, che non è questa la strada giusta da percorrere.

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Il paradosso della felicità

Richard Easterlin ha descritto questa evidenza nel 1974, con il suo “Paradosso della felicità”, detto anche “Curva di realizzazione”.
Esso mostra che quando si passa, in termini di ricchezza, da “sopravvivenza” a “abbastanza”, la curva della felicità sale.
E mi sembra ovvio: quando si è sicuri che la sera si potrà mangiare, che si avrà un tetto sopra la testa e che, indipendentemente da quello che potrebbe accadere, si è in grado di affrontare, almeno economicamente, anche il domani, iniziamo a sentirci più sereni.

Quando si raggiunge il punto “abbastanza” – che ovviamente è soggettivo – la realizzazione e la felicità crescono.

Ma è oltrepassato quel punto che succede qualcosa d’interessante. Se raggiungiamo un punto di consumo eccessivo, di iper-consumo, e la felicità comincia a scendere e il senso di realizzazione precipita.

Il Paradossi Della Felicità

Le ricerche calcolano che gli americani spendono 1.2 trilioni di dollari all’anno in beni non essenziali.
In Italia, secondo alcune stime, nel 2015 sono stati spesi 17.3 miliardi di euro in beni di lusso.
Un recente studio ha inoltre dimostrato che il mercato dei beni di lusso è aumentato del +6% nel 2018, toccando un giro di affari di 260 miliardi di euro. Il trend è in continua crescita e secondo le stime raggiungerà i 320-365 miliardi di euro nel 2025.

Spendiamo enormi somme di denaro per quelle cose che superano il punto “abbastanza” per molti di noi, cose che non aumentano la nostra felicità, ma che comunque ci ostiniamo a comprare e a consumare.

Felicità vs utilità

Fu soprattutto con l’affermazione della dottrina utilitaristica all’interno di tutti gli ambiti della vita sociale che il concetto di felicità fu progressivamente sostituito con quello di utilità. I giudizi sulla felicità iniziarono a basarsi unicamente sul calcolo della propria utilità, intesa quest’ultima come la proprietà della relazione tra cose e persone. 

Felicità E Utilità

Ma siamo sicuri che felicità e utilità siano la stessa cosa?

A differenza dell’utilità, la felicità è la proprietà della relazione tra le persone. si può essere soli e al contempo soddisfatti della propria vita, ma questo non basta per dirsi felici. Bisogna almeno essere in due per poter “consumare” la felicità.

Ed è proprio attraverso il dono, reciproco e gratuito, che fioriscono le relazioni attraverso cui è possibile raggiungerla.

“I beni non condivisi sono sempre vie d’infelicità. Il denaro tenuto stretto, in realtà impoverisce il suo possessore, perché lo spoglia della capacità di dono. L’avaro, per definizione, non riesce a donare e dunque non può essere felice. Può fare regali, può cioè impegnarsi in pratiche filantropiche se ciò gli serve, strumentalmente, ad accrescere il suo possesso.”

Ecco allora emergere il secondo concetto della nostra storia, la parola Donazione.

Donazione

Siamo fatti per donare

Ho buone notizie per voi.
E la buona notizia è che “siamo fatti per donare”.
E non è solo teoria, è stato dimostrato scientificamente.
Il nostro DNA è codificato per cooperare perché è attraverso la cooperazione e attraverso il dono che si riesce a sopravvivere.
Uno studio condotto nel 2006 ha dimostrato che quando si dona, avvengono delle reazioni a livello neuronale: si attiva la via mesolimbica che è deputata al rilascio di dopamina e questo neurotrasmettitore regola il centro celebrale della felicità e del piacere.

Siamo stati “creati” per questo, anche se tentiamo costantemente di trarre piacere da altro.

Donare invece di comprare

Suggerisco quindi, invece di continuare a iper-consumare e far precipitare la curva, di inserire il concetto di “donazione” e stoppare l’arco discendente che porta al vuoto, per sperimentare un nuovo – e ancora più grande – senso di realizzazione.

Possiamo scegliere se far parte del gruppo che sperimenta il piacere del dono (e diventare a nostra volta donatori) oppure se appartenere alla categoria di coloro che consumano.

Il dono è per natura un essere. Il valore del dono in quanto tale corrisponde al valore della relazione stessa generata da quel dono.

Donazione E Relazione

La donazione, quando privata dello spirito del dono, appare invece un semplice dare e rischia di distruggere la forza emotiva che ha dato origine alla donazione stessa. 

Donare rende felici

Nel 2008, l’Harvard Business School, nel contesto di uno studio più ampio, ha condotto un esperimento.
E’ stata data una somma in denaro ai partecipanti ed è stato chiesto loro di scegliere se spendere quei soldi per sé o per qualcun altro.
Chi ha deciso di dare i soldi a qualche bisognoso o a un’organizzazione non profit, ha riportato un aumento del proprio senso di soddisfazione e una maggior felicità.
E questo, indipendentemente dall’ammontare della somma a disposizione.

Come spiegano i ricercatori: “Le attività per cui le persone scelgono di impegnarsi, possono indicare un percorso promettente verso una felicità duratura. Con questa premessa, il nostro lavoro dimostra che il modo in cui le persone scelgono di spendere i loro soldi è importante tanto quanto la quantità di denaro che hanno a disposizione.”

Per quelli che credono che donare non serve a nulla, perché “non si può fare veramente la differenza con i pochi soldi che dono”, vorrei ricordare che il motivo per cui si dona non è soltanto l’impatto che si ottiene con i soldi donati per quella specifica causa, ma la gioia che deriva da quel gesto.

Come recita un bellissimo versetto: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”.

Donare per cambiare

Il vero tema è CHI SCEGLIAMO DI ESSERE e quale strada decidiamo di intraprendere.

Se facciamo parte della categoria di chi non dona, allora saremo dei non-donatori, ma se scegliamo di donare, questa scelta ci aprirà scenari migliori perché aiutare gli altri, aiuta a vivere più a lungo

Perché quando contribuiamo con il tempo o con il talento ad aiutare qualcuno, gli stiamo dicendo che lui vale e questo, ha effetti incredibili sulla nostra salute.

Uno dei 5 fattori che contribuiscono ad attenuare la depressione è “donare”.

Creatività, resilienza, salute e persino longevità possono essere migliorate o essere un sottoprodotto della decisione di contribuire alla vita degli altri.

Sebbene quindi le richieste di donazioni, possano sembrare riguardare solo il denaro, il vero obiettivo, è far succedere il cambiamento.

Lavoro molto con i giovani e i migliori di loro cercano uno scopo, un obiettivo.

Do sempre loro un suggerimento: per aiutarvi a trovare il vostro scopo guardatevi indietro, trovate le sfide che siete riusciti a superare nella vita e aiutate qualcun altro che si trova ad affrontare lo stesso problema.  Questo ci rende parte di una storia straordinaria, la storia di una comunità di donatori.

Comunità 

Una comunità che si trasforma

Eccoci arrivati all’ultimo concetto della nostra storia: la parola Comunità.

Come ha affermato un’intervistata: “Il fundraising ti consente di cambiare, in meglio, la vita delle persone migliorando la loro qualità di vita. Hai un fine ben diverso dall’arricchire qualcuno o qualcosa! E’ per questo che mi piace pensare al fundraiser come a un intermediario di felicità, è come un omino con le due mani tese: in una tiene quella del donatore e nell’altra quella del beneficiario, li mette in connessione, anche se spesso non direttamente, per realizzare i sogni di entrambi”.

Capiamo allora che se questo è vero, il “terrificante” lavoro del fundraiser non è affatto quello che la gente pensa, ma serve primariamente a rendere le persone “più felici”.

A causa della nostra cultura consumistica siamo così tanto concentrati sul denaro che è l’unica cosa attorno cui gravitiamo. Ma aiutare le organizzazioni, essere un donatore, essere parte di un team di fundraising, non è solo questione di soldi, è questione di significato.

Quando parlo di fundraising la prima immagine che viene in mente è stare davanti a qualcuno cercando di convincerlo a dare dei soldi, ma non si tratta di convincere qualcuno a donare, si tratta di mettere in relazione.
Riprendendo la definizione di Henry Rosso, si tratta, di “insegnare agli altri la gioia di donare”

Valori e relazioni

Il processo di raccolta fondi non implica indebite pressioni sui soggetti che non vogliono donare.
Ma permette di mettere in atto le intenzioni altruistiche di coloro che vogliono farlo.

Un bravo fundraiser dovrà capire il peso che ogni donatore attribuisce a determinati valori, per poter prevedere verso quale causa o quale progetto essi orienteranno la propria decisione di dono.

Capiamo bene allora che il fundraising non è vendita diretta, ma è mettersi a fianco di qualcuno, capire i valori che spingono le persone a donare, incanalarli verso una decisione e insieme, immaginare uno scopo più alto. In pratica: mettersi dalla stessa parte, discutere e lavorare insieme.

Cominciamo a renderci conto che fundraising non significa “transazione” ma “trasformazione”?

Donando si trasforma la propria vita, e, almeno in parte, anche quella degli altri.

Quindi chi è un fundraiser se non un intermediario importante che crea connessioni significative fra le persone, e che nel farlo costruisce felicità, trasformando la vita dei donatori.

Quindi in sintesi: i soldi possono comprare la felicità? Direi proprio di sì!

Ma non nel modo in cui crediamo si debba fare. Lo ripeto, se vogliamo stoppare l’arco discendente che porta all’infelicità, occorre reinserire il concetto di donazione all’interno della nostra vita.

Ecco allora che mi presto a chiudere questo capitolo suggerendo tre piccole pratiche per rendere la nostra vita più appagante:

Donare invece di consumare

Avere cura delle persone invece di limitarci a criticarle

Celebrare il bello che osserviamo, invece di limitarci a compararlo.

Alcuni dei testi che hanno ispirato questo articolo

  • Bronfman, C., Solomon, J., The Art of Giving. Where the soul meets a business plan, Jossey-Bass, San Francisco, 2010
  • Moll, J., Krueger, F., Zahn, R., Pardini, M., de Oliveira-Souza, R., Grafman, J., Human fronto-mesolimbic networks guide decisions about charitable donation, 2006
  • Dunn, E., W., Aknin, L., B., Norton, M., I., Spending money on others promotes happiness, Vol. 319, Science, 2008. 
  • Zamagni, S., Il dono come buona pratica della gratuità, 2009. gratuita%E2%80%9D-di-stefano-zamagni/
  • D’Arpizio, C., Levato, F., Altagamma 2018 Market monitor worldwide luxury. The future of luxury: a look into tomorrow to understand today, Bain & Company. 
  • Alberto Contri, McLhuan non abita più qui, Bollati Boringhieri, 2016
  • Easterlin, R., Income and Happiness: Towards a Unified Theory, The Economic Journal, 2001
  • Hunt, M.,G., Marx, R.,Lipson e C.,Young, J., No more fomo: limiting social media decreases loneliness and depression, University of Pennsylvania, pubblicato in Journal of Social and Clinical Psychology, Vol. 37, No. 10, 2018, pp. 751-768
  • Mooallem, J., The Self-Storage Self, 2009. 
  • Bierce, A., The Devil’s Dictionary, 1911
  • Kahneman, D., Krueger, A., B., Schkade, D., Schwarz, N., Stone, A., A., Would you be happier if you were richer? A focusing illusion, Science, Vol. 312, Issue 5782, pp. 1908-1910, 2006. 
  • Ruth Whippmann, America the anxious: how the pursuit of happiness is creating a nation of nervous wreck, St. Martin’s Press, New York, 2016
  • Berndt, C., La scienza della contentezza. Come raggiungerla e perché conviene più della felicità, Giangiacomo Feltrinelli Editore milano, 2017
  • Jonathan Haidt, The Happiness Hypothesis, Random UK, 2006.