Face To Face Cos'è
Tecniche di Fundraising

Face to Face: cos’è e come si inizia

Face to Face: ti stai chiedendo cosa sia e come possa essere utile per la tua organizzazione?
In questo articolo Alessandro Colicci, Sos Children’s Villages International, ci racconta tutto quello che dobbiamo sapere prima di iniziare a pensare a un piano face to face nella nostra organizzazione: da che cos’è il face to face, ai miti da sfatare, alle condizioni imprescindibili che servono prima di partire, a come impostare una strategia, fino ai rischi a cui andiamo incontro.

Cosa troverai in questo articolo

C’era una volta… Una storia di fundraising iniziata nel face to face

Tutte le volte che mi chiedono “da dove hai iniziato?”, vorrei tanto rispondere “anni di attivismo per i diritti umani al liceo”, “mesi passati a pulire le spiagge con il gruppo di volontariato giovanile, e poi…”. Ma la verità è che il Fundraising è accaduto per caso.

In uno di quegli splendidi pomeriggi d’ottobre romani, in cui la città ancora non si rassegna alla fine dell’estate, stavo lavorando alla bibliografia della mia tesi di laurea in diritto d’asilo.
Quale migliore fonte della pagina web dell’Agenzia ONU per i rifugiati!
Ed ecco che mi salta agli occhi un piccolo trafiletto in alto a destra: “vuoi fare la differenza per i rifugiati? Entra a far parte della nostra squadra, lavora con noi, diventa un Dialogatore!”.

All’epoca, l’alternativa per tirare su un po’ di soldi era fare il cameriere. Allora mi dissi “proviamo, mi pare che abbia senso!”.

Due settimane dopo ero in campo, in Piazza della Repubblica a Roma, con pettorina, badge identificativo, cartellina con materiale esplicativo e moduli di donazione annessi.
Mi sentivo un leone! Tutto brandizzato!
“Buongiorno, mi chiamo Alessandro, oggi è il mio primo giorno, e lei è il mio primo donatore, vero?”.
Due donatori in poche ore, che giornata!

Una passione iniziata per caso, un lavoro che mi ha inseguito nei successivi 10 anni.

Cos’è il face to face

Ma non diamo nulla per scontato, partiamo dalle basi: che cos’è il Face to Face (F2F) Fundraising?

Il face to face è un programma di raccolta fondi. Si tratta di un canale di acquisizione di donatori regolari, che si avvale di un approccio diretto, faccia a faccia per l’appunto.
Il face to face ha come protagonisti due figure chiave: il potenziale donatore da un lato, che viene approcciato vis a vis, e il dialogatore dall’altro.

Il più grande errore è pensare che sia qualcosa di “improvvisato”: niente di più lontano dalla verità.

Ogni aspetto, dal reclutamento dei dialogatori alla struttura dei dialoghi, dalla ricerca di location alla produzione dei materiali, ha delle regole specifiche, delle tecniche funzionali e delle modalità di implementazione.

I dialogatori sono professionisti

Due premesse importanti, la prima è un mito da sfatare:

I Dialogatori sono dei professionisti, formati su contenuti e tecniche di comunicazione e vendita. Spendono tante ore della propria giornata, a volte in condizioni climatiche avverse e all’aperto, nel tentativo di approcciare centinaia e centinaia di persone e di avvicinarle ad una causa importante. Sono dunque, e giustamente, retribuiti e non sono dei volontari dell’Associazione.

In house o Outsourced

La seconda è che il F2F Fundraising, al netto di sistemi c.d. “ibridi”, di solito è svolto in due modalità:

  • In-House, dove l’intero programma è gestito in TUTTI i suoi aspetti direttamente dall’Associazione;
  •  “outsourced”, esternalizzato, con il supporto di una o più agenzie specializzate in questa attività.

L’una non esclude l’altra, e un’associazione può avere in piedi entrambe le modalità.
Anzi oserei dire che sarebbe una buona pratica, soprattutto in una realtà competitiva come quella italiana.

Conviene investire nel F2F?

Prima di passare ad esaminarle entrambe, per capire quando, come, perché implementare il F2F, la domanda più importante da porsi è: conviene?

Prendiamo in esame la sua storia per comprenderne il potenziale. Il F2F nasce in Austria nel 1993 grazie a Greenpeace, con l’obiettivo di garantire all’Associazione delle risorse libere da investire nel proprio Programma, in assoluta indipendenza da qualsiasi azienda, istituzione o stakeholder. Infine, accresce la conoscenza e considerazione del brand dell’Associazione, garantendo quindi un indotto indiretto anche su altri canali di raccolta fondi.

Di certo non potete aspettarvi un ritorno economico positivo nei primi mesi, anzi, nel primo anno.
Il F2F infatti, è un canale di acquisizione a basso ROI, che richiede cioè importanti investimenti (risorse umane, materiali, provider, advertising per il reclutamento) e garantisce un ritorno positivo nel medio e lungo periodo.
Nella mia personale esperienza, non ho mai gestito un programma di F2F con un Breakeven-point, il pareggio fra ciò che investi e ciò che ti ritorna, antecedente ai 14 mesi.

Ciò premesso, è un canale di Fundraising che garantisce la possibilità di acquisire un grande numero di sostenitori regolari in un tempo molto breve. Ad oggi In Italia non ha ancora trovato un degno sostituto nell’universo dell’Individual Giving.

10 condizioni + 1 che un’organizzazione deve avere se vuole iniziare a fare F2F

Quali sono le precondizioni fondamentali, esterne ed interne, per implementare un programma di F2F?

1- Investimento

Una buona capacità di investimento da parte dell’Associazione, e una disponibilità di cash flow adeguata sono essenziali per iniziare.

2- Un Team di Fundraising strutturato

L’organizzazione deve avere un team, all’interno del quale ci sia almeno una persona con precedente esperienza sul campo e buona conoscenza del canale; è impensabile improvvisare!

3- Consapevolezza dei rischi

TUTTA l’organizzazione deve essere consapevole dei benefici ma anche dei rischi connessi, come quello reputazionale. Da un punto di vista prettamente statistico, non possiamo controllare ciò che ogni minuto i nostri Dialogatori diranno alle persone e più aumenta il numero degli operatori, più aumenta il rischio di messaggi non sempre allineati con le policy dell’Associazione.
E non si può nemmeno pretendere che non esistano detrattori che ci accuseranno di spendere i soldi dei donatori per pagare persone che importunano altre persone (non sanno che si tratta di un investimento di lungo periodo che garantisce sostenibilità, indipendenza ed efficacia all’attività della No Profit); come gestire questi rischi lo vedremo più avanti.

4- Il Board on board

I nostri consiglieri devono avere fiducia nel progetto, devono conoscerne i dettagli, i pro e i contro e, ancora, i rischi connessi; vi avviso, questa sarà la parte più difficile!

5- Un’analisi di mercato approfondita

Abbiamo bisogno di capire chi è il nostro target, dove si trova, cosa gli interessa; quali sono gli elementi psico-demografici che contraddistinguono i nostri potenziali donatori.

6- Materiali di comunicazione adeguati

Dobbiamo coinvolger il dipartimento di comunicazione, che ci aiuterà a declinare al meglio i messaggi chiave dell’Associazione con l’elaborazione di veri e propri “prodotti” di donazione, che possano ingaggiare i nostri donatori sul lungo periodo.

7- Database

Un adeguato database per gestire la mole di dati.
E perché no, un software e dei tablet, per partire col piede giusto, abolendo da subito l’utilizzo di carta, che rallenta i processi di inserimento dati e comporta il rischio di smarrire i formulari di donazione, veri e propri contratti a scopo di liberalità.
La digitalizzazione del processo di acquisizione ci permetterà anche di tracciare e monitorare al meglio le performance del programma.

8- Gestione della privacy

Abbiamo bisogno dell’aiuto dell’ufficio legale, che ci aiuterà nella gestione della privacy dei nostri donatori, nella gestione dei contratti con partner esterni e Dialogatori (nel caso partissimo con un In-House) e, speriamo di no, nella gestione di eventuali crisi.

9- Un adeguato sistema di pagamento

Dobbiamo avere un sistema di pagamento che ci autorizzi a prelevare, previa autorizzazione, le nostre quote di donazione dai conti correnti e carte dei nostri sostenitori.

10- Una strategia di Retention

Ossia un adeguato “ciclo del donatore” che preveda, ancora prima di partire con l’acquisizione, una serie di azioni per alimentare la fiducia, la soddisfazione e il valore economico dei nostri supporter nel lungo periodo; l’obiettivo non è quello di acquisire donatori, l’obiettivo è quello di generare una comunità di supporter che rimangano con noi per lungo tempo.

11- Brand awareness?

Alcuni anni fa, fra i prerequisiti, avrei annoverato “una buona brand awareness”. Con gli anni, lavorando in contesti internazionali, ho capito che non è strettamente necessario, anzi a volte è proprio il F2F che aiuta ad accrescere conoscenza e consapevolezza del nostro Brand. Tuttavia, in una realtà estremamente competitiva come quella italiana, se siamo “poco conosciuti”, sarà sicuramente più difficile.

Iniziare col piede giusto: diversificare!

Ciò premesso, eccoci con il primo step: meglio lavorare con un partner esterno oppure con un’alternativa In-House?

Nel medio e lungo periodo, diversificare è sicuramente la strada giusta: un sistema misto, con Partner esterni – In-House che procedono in parallelo, può avere un impatto positivo sul rischio di investimento e può garantirci volumi di donatori maggiori. Troppe volte ho visto programmi In-House decennali chiudere in pochi mesi a causa di una crisi, o rapporti con agenzie esaurirsi in tempi record.

Definire un obiettivo

Dobbiamo però capire il nostro contesto di riferimento e definire in maniera chiara qual è il nostro obiettivo

Scenario 1- Sono alle prime armi, sono una piccola Associazione, parto da zero

Mettere in piedi un programma In-House richiede risorse umane, competenze e soprattutto tempo.

In questo caso dunque, suggerisco di procedere con un’agenzia. Un provider esterno attendibile, con uno storico di collaborazione con altre ONG, competente e con la giusta capacità.

La strategia di medio periodo potrebbe essere quella di acquisire una buona mole di donatori (così tranquillizziamo anche i nostri consiglieri ), imparare dal partner che abbiamo scelto e, una volta acquisite a nostra volta le competenze, fondare un In-House che proceda in parallelo.

Attenzione. Diversificare dal punto di vista dei partner esterni, avere cioè più di una agenzia, può essere una spada di Damocle: l’accounting F2F è un processo impegnativo e non sempre facile. Nel caso del primo scenario, può essere più conveniente identificare una sola agenzia con cui costruire un onesto rapporto di partenariato.
E magari diversificare poi con un In-House, invece che spendere tante risorse con tre o quattro agenzie che magari ci garantiscono lo stesso volume di donatori che avremmo avuto lavorando, bene, con una sola.

Scenario 2- Ho già in piedi un programma F2F esternalizzato

Ottimo! In questo caso, il mio consiglio è innanzitutto di consolidare il programma esternalizzato.

E’ di fondamentale importanza poter contare sui nostri partner nel lungo periodo. Parallelamente, possiamo valutare l’apertura di un programma interno.

Siamo in grado di concepire un investimento adeguato per testarlo? Ci servono, ripeto, risorse competenti da inserire nello staff, risorse economiche per pagare i nostri dialogatori, per i materiali, per le campagne di reclutamento dei dialogatori.
Se la risposta è si, allora la scelta è obbligata.

Scenario 3- Ho già in piedi un programma di F2F In-House

In questo caso, il suggerimento è di considerare l’ipotesi di integrarlo scegliendo un programma esternalizzato.
Potremmo affidargli un test (un programma porta a porta, una regione diversa, un prodotto diverso) e che ci garantirà la diversificazione e redistribuzione dei rischi.

Scenario 4- Ho già in piedi un programma di F2F misto e consolidato

Bene, allora forse questo articolo può essere utile per confrontare il tuo modo di gestirlo, con quello che suggerisco di seguito.

F2F in agenzia – perchè e quando

Dunque, riassumendo, perché e quando scegliere un’agenzia specializzata in F2F Fundraising?

  • Per testare il mercato;
  • Per consolidare il programma di F2F;
  • per acquisire in minor tempo un buon numero di donatori regolari;
  • per diversificare gli investimenti, nel caso l’Associazione abbia già in piedi un programma Interno;
  • perché è l’unica scelta possibile se non si ha know-how e capacità finanziaria.

Quali sono i potenziali rischi?

Reputazionali

Probabilmente, come tante agenzie sul mercato italiano, quella che abbiamo scelto ci garantisce massima serietà e rispetto delle policy.
Tuttavia è innegabile l’esistenza di un rischio reputazionale, laddove si affida il proprio brand a centinaia di persone che non sono direttamente nostri collaboratori o dipendenti.

Qualità dei donatori

Valgono anche qui le premesse del punto sopra e per lo stesso motivo si deve sottolineare la possibilità che il coinvolgimento dei donatori acquisiti (da personale esterno, molto competente dal punto di vista delle tecniche comunicazione e meno da quello dei contenuti) possa essere minore.
Ciò potrebbe generare una maggiore Attrition rate, un KPI essenziale di cui parleremo più avanti.

Rischio di dipendenza

Il rapporto di partenariato è talmente solido da generare una condizione di interdipendenza.
Il punto è che, dietro questa collaborazione, ci sono flussi di fondi che alimentano i nostri programmi di Missione. Qualora un giorno, per qualsiasi motivo, il rapporto si incrinasse, probabilmente l’agenzia troverebbe altri clienti…e noi?

F2F In-House, perché e quando?

  • Quando si ha la capacità finanziaria per fare un investimento sul medio e lungo periodo, assumendo un ritorno positivo non prima di un anno; 
  • quando internamente abbiamo risorse umane con le adeguate competenze, oppure possiamo permetterci di reclutarle;
  • per diversificare i nostri canali di acquisizione;
  • per ridurre la dipendenza da partner esterni ed esseri quindi più autonomi;
  • per avere il totale controllo del nostro brand.

Quali i punti di debolezza e potenziali rischi?

  • Come già detto, è richiesto un ingente investimento iniziale, dunque rappresenta una maggiore esposizione economica; il progetto potrebbe andar bene oppure no;
  • richiede staff interno, know-how, introduzione di nuove figure professionali (i Dialogatori), ed è dunque decisamente sfidante;
  • richiede un maggiore effort dal punto di vista del tempo lavoro;
  • per vedere risultati, ci vorrà più tempo.

Conclusioni

Il nostro primo step è concluso. Abbiamo capito cos’è il F2F Fundraising, abbiamo definito il nostro obiettivo e abbiamo valutato tutte le ipotesi per iniziare nel modo migliore. 

Nel prossimo articolo entreremo ancora più nel dettaglio, cercando di capire quali sono gli elementi che rendono il F2F un programma di successo, come implementarli e soprattutto come misurare i nostri risultati.