Il fundraising da lasciti non è una “linea in più” in un piano di raccolta fondi ben fatto. Investire nei lasciti testamentari è oggi una delle scelte più strategiche per la sostenibilità di lungo periodo delle organizzazioni nonprofit. Eppure, in Italia sono ancora pochissime le realtà che lo fanno davvero. Troppe lo citano nei documenti programmatici senza assegnargli un budget, un ruolo, un progetto.
Se nel precedente articolo abbiamo visto come comunicare in modo efficace l’importanza del lascito, qui andiamo più in profondità su un punto decisivo: perché e come investire nei lasciti testamentari.
Perché se il legacy è il futuro, questo futuro non si costruisce da solo.
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Non è una voce accessoria. È una strategia di sopravvivenza.
Chi oggi guida un’organizzazione ha almeno tre responsabilità: proteggere il presente, garantire il domani e costruire il dopodomani. I lasciti sono una delle pochissime leve capaci di incidere su quest’ultima dimensione: il tempo lungo.
Eppure, sono trattati – spesso – come “canale marginale”. Paradossalmente, il canale più redditizio nel medio-lungo periodo è quello meno finanziato nel breve.
Investire nei lasciti non è opzionale, è urgente.
Un dato rilevante (fonte: Legacy Futures): ogni sterlina investita in lasciti nel Regno Unito genera, a regime, un ritorno tra le 30 e le 70 volte superiore. Anche depurando queste cifre dal contesto britannico e adattandole a quello italiano, il rapporto resta tra i più alti del fundraising.
La verità è semplice: comunicare bene non basta. Bisogna investire.
Cosa significa davvero “investire” in lasciti testamentari?
Investire non vuol dire stampare una brochure o creare una pagina sul sito. Significa allocare risorse – economiche, professionali, culturali – in modo strutturato e continuativo.

Non si può fare fundraising da lasciti “a costo zero”. Un investimento minimo annuale di 10-15.000 euro, anche per una piccola organizzazione, può attivare le leve principali: formazione, consulenza, materiali, eventi, comunicazione dedicata.

Serve una persona interna (anche part-time) o un/una consulente con competenze specifiche. Meglio ancora: una funzione trasversale che coinvolga fundraising, comunicazione, amministrazione e direzione. Serve inoltre prevedere un supporto legale o notarile (anche attraverso convenzioni).
Non solo: sempre più organizzazioni che hanno investito anni fa nel legacy fundraising, oggi si trovano a gestire lasciti in forma di immobili, terreni o partecipazioni. Questo ha richiesto l’attivazione di strutture professionali interne dedicate alla gestione dei beni ricevuti. È un segnale chiaro: i lasciti consolidano il patrimonio dell’ente e ne modificano la dimensione economica, richiedendo nuove competenze e modelli gestionali più strutturati che vanno attivati.

Se non ci crede il board, se la governance non è convinta, il progetto fallisce. Il legacy richiede fiducia, tempo, visione. Va inserito nel piano strategico, discusso nei consigli di amministrazione, raccontato all’interno come parte dell’identità.
Un altro dato che fa riflettere: oltre la metà dei testamenti che arrivano alle nonprofit proviene da donatori che non sono presenti nei database. Donatori e donatrici “invisibili”, che hanno seguito l’organizzazione in silenzio, spesso per anni, senza mai attivarsi in vita con una donazione. Eppure, al momento del testamento, decidono di esserci. Questo fenomeno dimostra quanto sia importante investire nella comunicazione diffusa e costante, anche per raggiungere chi non interagisce direttamente.
Dove allocare il budget: tre aree imprescindibili

Il tempo lungo è il primo vero investimento: chi fa un lascito non lo decide in due settimane. Servono anni di relazione, ascolto, cura. Questo vuol dire: telefonate personali, inviti a eventi, lettere riservate, momenti dedicati. Non è una campagna. È una relazione.

Serve un sistema: materiali informativi ben progettati, sito web aggiornato, video emozionali, eventi di presentazione con esperti, gestione delle richieste di info. Serve una infrastruttura, non solo creatività.
Ma creare un’infrastruttura significa anche diffondere internamente la cultura del lascito. Tutto il personale, volontari compresi, dovrebbe sapere cos’è un lascito, come parlarne, come intercettare domande o segnali. Questo evita scollamenti interni, disomogeneità nel racconto e, soprattutto, garantisce coerenza e consapevolezza in tutta l’organizzazione.

Chi lascia parte del proprio patrimonio vuole sapere che verrà usato bene. Servono strumenti di rendicontazione trasparente, relazioni annuali, aggiornamenti, una comunicazione che non sparisce dopo la donazione.
I tempi del ritorno (e cosa aspettarsi davvero)
Spesso con i colleghi si scherza, soprattutto con quelli che professionalmente adottano strategie diverse per lo sviluppo della raccolta da individui. “La fai facile tu che lavori per i lasciti …. Promuovi, diffondi e poi aspetti. Ma cosa misuri? Che indicatori hai per capire se la tua campagna sta andando bene o male? Noi ad esempio con il mailing abbiamo decine di indicatori che ci suggeriscono le strade migliori: redemption, attrition, ROI ecc….”.
In fondo un briciolo di verità c’è, ma occorre precisare alcuni elementi che consentono una tempestiva valutazione anche di queste strategie.
Nessuno raccoglie un lascito il mese dopo aver lanciato una campagna. Il tempo medio di attivazione effettiva – cioè tra l’interesse e l’arrivo del lascito – può variare da 3 a 10 anni. Ma ci sono indicatori di progresso che vanno monitorati subito:
Numero di richieste di informazioni
Numero di pledgers (chi dichiara l’intenzione di fare un lascito)
Numero di partecipanti agli eventi legacy
Traffico sulla pagina web dedicata
Feedback e contatti da parte di notai, famiglie, donatori storici
Il ritorno non è immediato. Ma è costante, incrementale e durevole.
Esempi e dati (dal mondo, adattati all’Italia)
Uno studio condotto da Remember a Charity e Legacy Futures dimostra che le organizzazioni che hanno attivato un piano legacy sistematico – pur partendo con budget contenuti – vedono raddoppiare in media le promesse di lascito entro 5 anni.
Molte piccole organizzazioni, anche italiane, che hanno iniziato a investire negli ultimi 10 anni, oggi vedono entrate da lasciti che coprono tra il 15 e il 30% del bilancio annuale.
La chiave non è la dimensione, ma la continuità dell’investimento. Chi inizia, mantiene e migliora, vince.
La leva dell’in memory: un ponte naturale verso i lasciti
Il fundraising in memoria (in memory giving) è una modalità in forte crescita, anche in Italia. Nasce dal desiderio delle persone di onorare chi non c’è più lasciando un segno di bene.
Le forme sono varie:
Donazioni in occasione del funerale o dell’anniversario
Pagine digitali commemorative
Iniziative familiari in ricordo
Intitolazioni di spazi o servizi
Partecipazioni a eventi con dedica commemorativa
Coinvolgimento dei familiari in azioni di raccolta fondi
L’”in memory” è spesso il primo contatto tra una famiglia e l’idea di legare il nome di una persona alla missione di un’organizzazione.
Non solo: al di là delle famiglie, ci sono ormai molte comunità (associazioni, condomini, gruppi di colleghi, circoli) che si aggregano proprio per ricordare una persona cara attraverso donazioni significative e a volte anche continuative.
Occorre essere pronti ed attrezzati per accogliere queste intenzioni e per incentivare non solo denaro nuovo a supporto delle nostre attività, ma anche numerose persone che si coinvolgono con la nostra causa in nome e in ricordo di un loro conoscente scomparso.
Per questo motivo, l’ “in memory” va integrato nel sistema legacy: stessa qualità relazionale, stessa cura comunicativa, stesso rispetto profondo. Chi dona in memoria oggi, può essere il testatore di domani. E spesso, è proprio grazie all’esperienza in memory che nasce la volontà di fare un lascito, in continuità con il ricordo di una persona cara.
Investire in questo ambito significa anche creare strumenti adeguati: form online per dediche, comunicazione personalizzata alle famiglie, eventi riservati, servizi commemorativi digitali. È un investimento delicato ma ad alto valore emotivo, relazionale e culturale.
Conclusione: i lasciti non si rincorrono. Si costruiscono.
Investire nei lasciti testamentari significa alzare lo sguardo dal presente e decidere che la causa che si rappresenta merita di esistere e agire anche fra 20, 30, 40 anni.
Significa uscire dalla logica del “budget di fine anno” e pensare in termini di eredità collettiva.
Chi oggi si limita a comunicare, ma non investe, resta fermo.
Chi oggi investe, semina. E tra qualche anno raccoglierà.
Non c’è scelta più strategica – né più urgente – di questa.