Tabella dei Contenuti
Se sei un fundraiser, il tuo obiettivo è incoraggiare individui e organizzazioni a donare alla tua causa. Ma ti sei mai chiesto cosa spinge le persone a donare? La risposta si trova nel profondo del cervello umano e nei delicati meccanismi che lo regolano molto più che su un foglio di statistiche e cifre a sostegno della tua missione. Comprendendo la neuroscienza della donazione e le ultime scoperte in questo ambito, puoi aumentare significativamente i tuoi sforzi di raccolta fondi.
Partendo dall’assunto che donare fa parte del comportamento umano, quello che ti preme è sicuramente comprendere come fare in modo di intercettare una percentuale sempre maggiore di questo bisogno. Si stima che nel 2022 le donazioni individuali in Italia abbiano raggiunto il valore di 6,7 miliardi euro, un balzo in avanti del 19% rispetto ai 5,6 miliardi del 2019 (Italy Giving Report 2023), a riprova che si tratta di un settore in forte crescita che offre ampio spazio per convincere migliaia di donatori a sostenere la tua causa.
Perchè si dona?
È una domanda semplicissima a cui si può tentare di dare molte risposte, fra cui le più frequenti sono:
• Aiutare chi è in difficoltà
• Sostenere una causa in cui si crede
• Contribuire a risolvere un problema che ci tocca personalmente
• Fa parte delle proprie attitudini/educazione
• Ce lo ha chiesto qualcuno di vicino
Sono tutte motivazioni più che valide, ma date ex post, che aiutano cioè a capire a posteriori cosa ci possa aver spinto a fare una donazione. La verità è che da secoli, studiosi e filosofi si arrovellano proprio su questo: cosa spinge un individuo a dare del denaro a una causa senza ricevere in cambio alcun bene tangibile?
Secondo il pensiero classico del do ut des questo è un vero e proprio paradosso. Il fatto di dare qualcosa senza un ritorno ha sollevato in passato non pochi grattacapi a filosofi ed economisti (fra cui J.S. Mill e David Ricardo) secondo le cui teorie l’homo oeconomicus agisce sempre in base a un tornaconto personale. Anche secondo la teoria darwiniana dell’evoluzione della specie basata sulla sopravvivenza dei più forti, il fatto che un individuo possa trovarsi nella spontanea condizione di fare un gesto senza riceverne un equivalente ricambio, ha posto diversi interrogativi.
Sum ergo Cogito, la rivoluzione delle neuroscienze
A dare una risposta, negli ultimi decenni, sono state le neuroscienze e gli impressionanti passi avanti compiuti nello studio del cervello umano, della sua struttura e dei suo delicati meccanismi di funzionamento. Sì può dire che le scoperte in questo campo abbiano ribaltato uno dei pilastri del pensiero occidentale saldamente eretto da Cartesio nel XVII secolo e che ha permeato gran parte del pensiero filosofico moderno. Il suo assioma Cogito ergo Sum, ovvero Penso dunque Sono è oggi completamente capovolto. Sembra infatti che non sia il pensiero razionale a definire la sequenza con cui il cervello umano prende decisioni, ma piuttosto le emozioni. Sono i primi secondi di fronte a un’immagine o a uno slogan, ovvero l’istinto emotivo, che ci spingono ad agire. Prima sentiamo e poi agiamo, dopo ancora daremo alle nostre azioni una spiegazione razionale.
Il neurologo portoghese Antonio Damasio, in uno suo saggio del 1995, confuta precisamente l’impianto classico del Cogito ergo Sum che definisce un “grande inganno”. La primaria spinta alle nostre azioni, dimostra, arriva da quella parte del cervello che gestisce le emozioni e che viene attivata da input sensoriali quali il tatto, la vista, il gusto, l’udito e l’olfatto.
In un batter di ciglia
In realtà, fu proprio Charles Darwin, il padre dell’evoluzionismo, a mettere le basi per una moderna teoria delle emozioni, siamo nel 1872, quando pubblicò il suo lavoro dal titolo L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali che sosteneva come in definitiva uomini e animali presentino mimiche facciali e reazioni emotive simili, ponendo le basi per provare come le emozioni siano insite nella natura biologica, nel DNA, e non provocate da un condizionamento sociale, culturale o geografico. Fu dunque Darwin il primo a ipotizzare una sorta di mappatura universale delle emozioni, di origine più antica e ancestrale rispetto al linguaggio e all’apprendimento razionale.
Fu un’importante scoperta, ripresa in tempi recenti dal celebre psicologo statunitense Paul Ekman che a partire dagli anni ’60 del Novecento ha portato avanti un poderoso studio sulle espressioni facciali sottostanti le emozioni, mettendo a punto un vero e proprio sistema, il Facial Action Coding System (FACS), con cui classificare le emozioni. Secondo le sue scoperte, le emozioni attivano le nostre decisioni molto prima che ce ne rendiamo conto. Attraverso l’osservazione di svariati popoli, fra cui una tribù della Papua Nuova Guinea mai venuta a contatto con il mondo, Ekman ha aggiunto una pietra miliare nel definire come un certo gruppo di emozioni primarie siano espressioni di base universali, non determinate dalla cultura e dalle tradizioni, a riprova della loro origine biologica.
Un altro fondamentale tassello è stato posto negli anni Duemila da un importante sociologo canadese, Malcom Gladwell, che grazie al successo del suo saggio Blink ha portato all’attenzione del grande pubblico il ruolo fondamentale delle emozioni nelle decisione che prendiamo. Ogni nostra decisione viene presa nelle parte destra del cervello umano, quella inconscia, appunto in un batter di ciglia, in media 2-3 secondi, selezionando un ristrettissimo numero di informazioni, per la maggior parte visive.
“Ci è stato insegnato che, prima di operare una scelta o di formulare un giudizio, è preferibile raccogliere e vagliare con cura il maggior numero di informazioni, tuttavia esiste un’altra forma di conoscenza, che si concretizza in quella prima, fugace idea che ci facciamo di qualcuno o di qualcosa in un batter di ciglia”. (Malcom Gladwell)
La scienza delle emozioni: casa accade nel nostro cervello
Quali sono dunque le parti del cervello che comandano le nostre emozioni? Le reazioni emotive ed emozionali prendono vita nella parte più primitiva del cervello, ovvero il sistema limbico, detto anche cervello emotivo. Quest’area è composta da svariate e interconnesse strutture cerebrali che insieme coordinano i compiti di percepire, prendere consapevolezza, controllare ed esprimere le emozioni. In particolare l’ippocampo è la sede della memoria emotiva e permette di ricordare le informazioni sensitive-sensoriali relative agli eventi vissuti, mentre l’amigdala, nota per la sua forma a mandorla, è il principale centro in cui vengono gestite le emozioni e dove ha origine la paura.
Donare rende felici
Dunque quale conclusione possiamo trarre da questi studi? Qual è il ponte di collegamento con l’attività del fundraiser?
Semplice: DONARE RENDE FELICI.
Questo percorso nel cuore delle neuroscienze ha permesso di provare scientificamente come vi sia uno stretta correlazione fra l’atto di donare e le attività cerebrali al livello delle emozioni. La parte del cervello che governa le emozioni, ovvero il sistema limbico, si attiva quando si decide di fare una donazione e reagisce alle stesse sensazioni provocate da stimoli quali cibo, denaro, sesso. Quando aiutiamo gli altri con un gesto di donazione vengono rilasciati ormoni come ossitocina e dopamina che ci fanno stare bene e ci rendono felici.
Dal marketing al fundraising
Le scoperte delle neuroscienze hanno rivoluzionato il modo di fare marketing, economia, psicologia e anche fundraising. Se si riesce a entrare in contatto e a scoprire il meccanismo che regola il cervello emozionale dei donatori, a fare in modo che i donatori memorizzino la nostra causa tramite ricordi emozionali, allora instaureremo con loro un legame duraturo e profondo che potrà essere richiamato e riattivato molte volte anche in seguito.
Secondo Tom Ahern, guru statunitense della comunicazione nel non profit, alla luce di quanto ci insegnano le neuroscienze, quando si compie una raccolta fondi non importa quanto il donatore
rifletta razionalmente sulla correttezza e la logica della nostra causa, attraverso statistiche e numeri, ma quanto la causa generi abbastanza emozioni nel donatore, o potenziale donatore, da spingerlo ad agire e a seguire anche in futuro la nostra missione. In sostanza occorre creare un engagement emotivo con il nostro potenziale donatore.
“Le persone donano con il cuore… La ragione ha sorprendentemente poco a che fare con il processo decisionale. Le persone non donano alla tua organizzazione per una decisione calcolata, ma perché sono stati toccati nei loro trigger emotivi.” – Tom Ahern
L'emozionometro
Facendo tesoro dalle principali scoperte delle neuroscienze, in particolare dagli studi di Paul Ekman sulle emozioni universali, lo studioso statunitense Dan Hill ha identificato 6 emozioni principali che vengono messe in gioco quando agiamo o prendiamo decisioni.
- FELICITÀ
- RABBIA
- SORPRESA
- DISGUSTO
- TRISTEZZA
- PAURA
Queste sei emozioni chiave sono la base da cui si dirama uno spettro di emozioni molto più ampio – in tutto sono state classificate 154 emozioni – che prende forma a seconda dell’intensità con cui queste sensazioni si presentano. La potenza, ovvero appunto l’intensità, con cui un’emozione viene provata è un elemento fondamentale per valutare l’impatto che avrà sulle nostre decisioni.
Ognuna di queste emozioni chiave, o la combinazione di esse, stimola una parte diversa del nostro cervello che a loro volta stimola il rilascio di sostanze chimiche. Non si tratta pertanto di una classificazione teorica, ma di una vera e propria mappa biologica di dove le nostre emozioni si formano.
Da notare che nello spettro delle emozioni la maggior parte è di carattere negativo. Esiste cioè una maggiore predisposizione del nostro cervello a reagire a stimoli con sentimenti negativi. Questo è stato attribuito da alcuni studiosi alla necessità evolutiva di sopravvivenza della specie che necessita di un maggior numero di strumenti per reagire di fronte a situazioni negative, rischi, pericoli con decisioni rapide sul tipo di risposta migliore per la salvezza.
Secondo uno studio condotto Small e Verrocchi dell’Università della Pennsylvania anche nel fundraising le emozioni predominanti e più efficaci sono quelle negative. Tuttavia questo non vuol dire che ogni campagna di raccolta fondi debba basarsi su emozioni negative. Spesso a funzionare è un mix di emozioni che può dipendere anche dal risultato che si vuole ottenere. Per esempio se desideriamo attenzione al nostro messaggio è consigliabile utilizzare emozioni positive come felicità o sorpresa. Se invece desideriamo ottenere un’azione di risposta rapida, la rabbia e la sorpresa saranno gli ingredienti più indicati.
Il potere del singolo
Vari studi, fra cui quelli condotti da Deborah Small e George Lowenstein dell’Università di Pittsburg hanno dimostrato che il cervello umano è programmato per dedicare più attenzione e provare empatia, e di conseguenza aiutare, quando si concentra su singole situazioni, storie, individui, animali, luoghi ecc., piuttosto che per insiemi di persone, numeri, statistiche e in generale per grandi gruppi.
“Se guardo alla massa di persone non potrò mai agire, ma se guardo alla storia di una singola persona, lo farò.” – Madre Teresa di Calcutta
È proprio così la storia di una singola persona, di una situazione, di un caso è in grado di raccogliere circa il doppio, in termini di donazioni, rispetto alla causa presentata per grandi numeri e percentuali. Anche dietro questa propensione umana è stato individuato un meccanismo psicologico denominato psychic numbing o paralisi psicofisica che subentra quando il cervello, di fronte alla sofferenza o alla morte di un ampio numero di individui, entra in una sorta di intorpidimento che lo rende gradualmente insensibile alle disgrazie di larga portata. La maggior parte degli individui tende a prendersi cura o attivarsi nei confronti di una situazione particolarmente toccante, ma tende a essere insensibile di fronte alla stessa sofferenza quando riguarda un ampio gruppo di individui.
Last but not least: storytelling!
Un altro cardine su cui, secondo le neuroscienze, si basa una valida campagna di raccolta fondi è la capacità di raccontare una storia. Già da tempo il marketing ha capito che al centro di una buona campagna pubblicitaria non deve esserci il prodotto, il prezzo o la qualità, ma la capacità di creare una connessione emotiva con il consumatore. Anche in questo caso arriva una spiegazione scientifica: il nostro cervello è programmato per ascoltare e narrare storie, un ancestrale meccanismo di apprendimento e memorizzazione che dalla notte dei tempi aiuta l’uomo ad ampliare la sua gamma di opzioni per agire al meglio nelle situazioni che assimila alle storie che ha ascoltato.
Mentre ascoltiamo una storia vengono rilasciate determinate sostanze (ossitocica, cortisolo) secondo uno schema a piramide che riassume la struttura narrativa che ogni racconto dovrebbe avere:
INIZIO > Viene evidenziato un problema o una sfida.
CLIMAX > La lotta, le difficoltà e il percorso che il protagonista deve compiere per affrontare la sfida iniziale.
SOLUZIONE > La soluzione al problema che appaga chi ascolta. Qui arriva la call to action, ovvero cosa può fare lo spettatore per la soluzione del problema.
Un esempio per tutti: FIONA
Questo è un esempio di come l’organizzazione statunitense Hope fot Paws sia riuscita a passare dalla teoria alla pratica mettendo in un video di raccolta fondi un mix di tutti gli elementi sopra descritti e facendone così un caso YouTube da milioni di visualizzazioni, ma soprattutto rendendo la campagna di raccolta fondi un vero successo.
– vengono utilizzate tutte le 6 emozioni con intensità ben calibrata;
– è presente la forza narrativa dell'”uno contro tutti”;
– uso sapiente dello storytelling;
– suoni, immagini, parole sono dosati per lavorare in sinergia;
– un accorto mix di emozioni negative e positive.
Questo è un perfetto esempio di EMOTIONRAISING!
Conclusioni
Attraverso lo studio del cervello umano e soprattutto attraverso il contributo delle neuroscienze, oggi abbiamo molte più informazioni di un tempo su cosa spinga un individuo a compiere un gesto che secondo il pensiero classico dovrebbe essere del tutto contro natura: dare qualcosa, donare, aiutare una causa senza ricevere nulla in cambio.
Grazie all’osservazione dell’attività cerebrale si è scoperto non solo che donare rende felici, attivando il rilascio di diverse sostanze connesse all’appagamento, ma anche che dietro l’atto, l’azione di donare non vi è un ragionamento calcolato, ma un’emozione o meglio un mix di emozioni che attivandosi diventano protagoniste del nostro agire.
Una valida campagna di fundraising oggi non può più prescindere da questi assunti. Comprendere quali emozioni si attivano nel donatore e quali sentimenti suscita la storia che vogliamo raccontare sono ormai alla base di un’efficace raccolta fondi. Se proponete numeri, statistiche e percentuali avrete dei donatori ben informati ma distratti, se riuscite a creare un solido engagement emotivo con il vostro audience probabilmente avrete dei donatori per sempre.
Autori
Francesco Ambrogetti – Professore di Emotionraising per il nonprofit
Martina Mazzotti – Studentessa del Master in Fundraising