Professione Fundraiser

Il fundraising visto dai fundraiser: intervista a Sira Bertarelli

Continuiamo a parlare di fundraising (e non solo) con chi fa di questa disciplina uno strumento di sostenibilità e crescita per la propria organizzazione, per il mantenimento di un impatto significativo dei propri servizi a livello sociale. Questo mese a rispondere al questionario di Alberto Cuttica è Sira Bertarelli, dell’Area Marketing soci, prospect e donatori del WWF italia.

Abbiamo recentemente parlato qui di cultura, università, volontariato in generale. Ora poniamo il nostro focus su un altro settore “chiave”: la natura, o – meglio – la conservazione della natura e la promozione di un approccio sostenibile ad essa.

Ci vuole dare una sua fotografia del ruolo del nonprofit, del suo stato e delle soluzioni per uscire da quello che sembra un perenne stato di emergenza? 

Partirei da un dato di fatto ovvero che nonostante proclami e impegni, la politica e l’economia hanno fatto molto poco per invertire seriamente la tendenza degli effetti disastrosi di una crescita sproporzionata e irragionevole. Il nostro impatto sul pianeta è cresciuto oltre il limite: per questo il WWF insiste nel parlare di un sistema che deve essere riportato nei limiti di un solo Pianeta, l’unico che abbiamo a disposizione.

Solo a titolo esemplificativo, l’anno scorso si è tenuto a il summit Rio+20 sullo sviluppo sostenibile: una grande delusione, perché la debole intesa raggiunta ha lasciato numerosi problemi irrisolti e dubbi sulle reali intenzioni dei governi di impegnarsi in termini di “crescita ragionevole”.

Questa premessa perché la questione vera è che, nonostante gli sforzi e l’impegno del variegato mondo del non profit sulla questione ambientale, invertire la tendenza può essere fatto solo insieme ai sistemi politici ed economici. E’ un punto sul quale dobbiamo avere il coraggio di confrontarci ed incidere.

In Italia su alcune questioni si riesce per fortuna a fare fronte comune con altre associazioni ambientaliste, anche se poi sul piano pratico le azioni sono spesso slegate.

L’emergenza c’è e ritengo sia miope e irrazionale negarla, nonostante il ruolo di “cassandre” o peggio ancora di  “uccelli del malaugurio” affibbiato a chi predice uno scenario molto fosco per il nostro pianeta, in assenza di interventi.

Noi, come altre associazioni, partiamo dai dati di studi e ricerche: proprio perché l’emergenza è globale, il WWF che è un’organizzazione internazionale, ha recentemente scelto di muoversi sempre più “Truly global” per garantire interventi mirati, per razionalizzare le risorse e per incidere significativamente.

Il WWF in tutto il mondo condivide un programma globale che si declina in due grandi assi prioritari: conservazione della biodiversità e riduzione della nostra impronta (attivazione di percorsi con obiettivi di riduzione dei nostri impatti sulla biodiversità planetaria).  Un impegno corposo, ma di ampio respiro e ambizioso!

Un’altra questione trovo poi scomoda e spinosa ed è l’abuso odierno della parola “sostenibilità”, frutto di una cultura approssimativa che ha tradotto la sostenibilità in maniera spicciola, presentando un’ampia gamma di prodotti ed attività con il termine “sostenibile”, quando, nella realtà possiamo al massimo parlare di “meno insostenibile”. Questa riflessione nasce da un approfondito ed interessante lavoro del Worldwatch Institute “State of the World 2013”: i ricercatori dicono che siamo nell’era della “Sustainababble”. Per chi si occupa seriamente di ambiente, questo è un problema perché la percezione del grande pubblico è “inquinata”. 

Se le dico fundraising, cosa mi risponde?

Una scoperta piacevole e travolgente. Il mio cammino professionale incontra il fundraising poco meno di tre anni fa. Vengo da esperienze nel mondo del profit. Il fundraising è una nobile arte, che diventa disciplina ed ha metodi e criteri, strumenti ed indicatori, best practices e letteratura, forse non ancora appannaggio di tutti coloro che lo praticano. Fare fundraising significa costruire valore, relazioni, scambio con i propri donatori e momenti di incontro e confronto. Ma credo significhi anche una professione che andrebbe riconosciuta e valutata, tassello ancora mancante in Italia. Associare passione e lavoro è un lusso di questi tempi in Italia quindi i fundraiser sono fortunati perché spesso lavoriamo per sincera passione nella causa che sosteniamo, ma da solo questo requisito non credo che basti più. Mi ispiro ad una definizione che approvo che afferma che “la grande responsabilità dei professionisti del fundraising si configura rispetto all’affermazione di una dimensione consapevole e organizzata del dono, al fine di renderlo un aspetto importante e “presente” nella vita quotidiana di un numero sempre maggiore di persone.”

Nel nostro Paese la cultura della raccolta fondi, quella non solo legata a bandi di finanziamento e a erogazioni da parte del pubblico, è ancora decisamente immatura rispetto ad altre realtà, in particolare di matrice anglosassone. Perché, secondo lei?

Una bella domanda, me lo sono chiesto anche io quando ho avuto l’occasione di confrontarmi con i miei colleghi all’estero! Onestamente credo dipenda da molteplici fattori, non è banale affrontare questo aspetto così cruciale attraverso una sintesi. Sono convinta che tra i fattori determinanti ci siano le radici profonde socio-culturali di una comunità, i valori fondanti. La società anglosassone, ancorché un po’ in discussione ultimamente, si basa sul presupposto di una minore presenza dello “stato assistenzialista”, motivo per il quale la società civile che si organizza e propone soluzioni è una tradizione radicata e apprezzata.

Qui in Italia noto ancora molti, troppi luoghi comuni da sfatare sul non profit, vanno ancora affrontate e chiarite le questioni sui costi, sugli investimenti, sul personale volontario e non.   

Come dice giustamente Valerio Melandri in suo libro, il non profit italiano deve necessariamente cambiare paradigma e atteggiamento, dobbiamo porre fine all’idea che i migliori sono quelli che spendono meno, che il non profit deve essere fatto solo di volontari , che sono sufficienti le buone intenzioni e le buona volontà …..

Un altro aspetto è relativo alla capacità di organizzarsi di alcune non profit all’estero, che si sono strutturate ed agiscono ormai come grandi realtà aziendali e questo a mio avviso le rende più credibili.

Inoltre in parte in Italia scontiamo (so che sembra un volo pindarico e soprattutto un altro di quei temi stra-abusati e discussi) il clima di sfiducia complessivo nelle istituzioni, che ricade anche sulle organizzazioni del terzo settore.

Infine basti pensare che i dati ci dicono che da anni il numero totale di donatori italiani non cresce, mentre le associazioni del terzo settore sono aumentate del 28% (come da l’ultimo censimento Istat)! Ci dividiamo lo stesso numero di donatori senza essere riusciti ad accrescere quel numero!

Il rapporto fra nonprofit e profit è spesso caratterizzato da una costante difficoltà. Lei opera direttamente su questo tema: mondi così lontani?

Nella mia esperienza, il rapporto è meno difficile che in passato. Siamo nella fase in cui ci si “annusa”. Le aziende hanno capito l’importanza della corporate social responsability e molte hanno intrapreso da anni la strada del bilancio sociale; una interessante sfida per l’Italia potrebbe essere credere ed impegnarsi fermamente in progetti di impresa sociale. Oggi assistiamo ad una progressiva integrazione della dimensione ambientale nelle strategie di business delle aziende e l’affermazione di un nuovo modo d’intendere la responsabilità d’impresa. Come WWF lavoriamo con grandi realtà italiane che hanno scelto di impegnarsi in programmi di riduzione degli impatti ambientali della produzione e percorsi di orientamento della policy ambientale e vengono seguiti dai nostri esperti. Il sostegno di partner come imprese è un elemento di fondamentale supporto alle strategie di tutela degli ecosistemi e delle specie a rischio di estinzione.

In generale nel panorama italiano mi sembra che i casi e le esperienze siano ancora pochi, si potrebbe di sicuro fare di più.  

Approfitto però per togliermi un sassolino dalla scarpa a proposito di profit e non: da un punto di vista lavorativo e professionale, nel mercato lavorativo italiano c’è ancora una certa “snobberia” dei professionisti del profit verso quelli del non profit; lo dico con rammarico ma si crede, a torto, che l’arena competitiva e formativa del profit sia superiore e richieda maggiori skill, vi posso garantire che non è così.

In 20 parole, un suo sogno per la società di domani.

Una società vivibile, trasparente, equa, civile, sostenibile, creativa, improntata ad un welfare state allargato, con pari opportunità e cultura del dono.

Alberto Cuttica – ENGAGEDin