Stefanizzi
Tecniche di Fundraising

Alice Stefanizzi e i miti da sfatare sul face to face

Il F2F Fundraising è uno dei temi più caldi e discussi nel panorama nonprofit. Tante le opinioni sull’argomento, tanti i miti e i pregiudizi da sfatare. Quale migliore occasione di una chiacchierata con una Esperta con la “e” maiuscola, per chiarirci un po´ le idee?!

Ebbene si, l’ho fatto, ho intervistato Alice Stefanizzi, Fundraising and Communication Director della Fondazione Progetto Arca. Una importante realtà italiana, che non ha bisogno di presentazioni.

Alice ha fondato e gestisce uno dei più grandi ed efficaci programmi di Face to Face Fundraising In-House che il nostro settore abbia mai conosciuto. Ce ne ha parlato in anteprima, in attesa del suo intervento al Nonprofit Day del 26, 27 e 28 ottobre.

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Da dialogatrice a esperta di face to face

Ci descrivi la tua storia professionale? Quando hai iniziato con il F2F?

Ho iniziato a lavorare nel F2F come dialogatrice, sono partita dalla base. Mi ero trasferita in Irlanda, avevo poco più di 20 anni. Stavo studiando un master in relazioni internazionali in una Università irlandese, avevo vinto una borsa di studio e dovevo arrotondare per continuare a vivere.

Ho applicato per un lavoro da Dialogatrice presso Concern, una ONG irlandese che, caso vuoi, aveva un grande programma di F2F In-House.

Ho iniziato a fare la Dialogatrice a Dublino, in strada, parlando in Inglese: forse questa era la cosa più complessa, perché vivevo in Irlanda solo da qualche mese e parlavo un Inglese scolastico, quello sufficiente per seguire le lezioni del master.

La strada è stata un buon test per il mio Inglese e per le mie capacità di fundraising in generale, non solo di dialogatrice.
Il programma era molto ‘figo’, mi sperimentavo “In-House” e avevo l’opportunità e il piacere di seguire tutte le formazioni interne di Concern, in cui la ONG presentava quasi ossessivamente i suoi programmi di cooperazione in tutto il mondo. Era veramente molto appassionante.

Lì ho capito che se credevo nella causa, e ci credevo fermamente, potevo parlarne in maniera sentita e forte anche in un’altra lingua e raccogliere un sacco di donazioni.

Ed è quello che è effettivamente avvenuto a Dublino in quell’anno.

E poi, come è andata avanti la tua carriera? Come sei arrivata dove sei ora?

Andando avanti, dopo aver terminato il Master, ho continuato a lavorare per Concern e ad un certo punto ho deciso di tornare in Italia.

Quando sono tornata ho inviato qualche curriculum per ‘fare la fundraiser’, non sapevo cosa volesse dire lavorare in ufficio, ero giovane e disposta a tutto pur di dedicarmi al non profit.

Mi hanno selezionata subito in Progetto Arca, e ho accettato.

Ai tempi -11 anni fa- non esisteva un ufficio di fundraising, o comunque non c’era una struttura come quella di oggi: c’era una segreteria, un piccolo programma di Direct Mailing e si raccoglievano fondi coinvolgendo soprattutto amici e volontari, con piccoli banchetti improvvisati, lotteria all´oratorio.

Con gli anni, il Presidente ed io, abbiamo costruito tutto l’ufficio.

Ad oggi raccogliamo circa 12 milioni di euro, siamo uno staff ampio e dal 2012 ci sperimentiamo anche con il F2F, per lo più In-House.

Per noi è una formula vincente, e si è rivelata migliore di quanto prodotto dalle agenzie che, con alti e bassi, ci hanno accompagnato in questi anni.

In ogni caso i grandi numeri continuiamo a farli e li abbiamo fatti con il F2F In-House. Siamo in più regioni: in Lombardia molto presenti; a Torino, a Roma, a Napoli e a Padova. Ci muoviamo sulla base dei mesi dell’anno delle opportunità e del personale che riusciamo a mettere in campo.

Siete partiti In-House o avete cominciato con un’agenzia?

In entrambi i modi: ai tempi, abbiamo reclutato una persona che ha fatto, nella stessa prima settimana, il dialogatore, il team leader e il coordinatore. Abbiamo cercato di formare immediatamente un team In-House e allo stesso tempo avevamo selezionato un’Agenzia che nel primo e nel secondo anno di collaborazione ha prodotto numeri decisamente interessanti, almeno per Progetto Arca.

Pian piano ci siamo appassionati al F2F In-House. Mi tornava in mente l’esperienza di Concern e mi sembrava davvero vincente. Se una persona interna porta il suo volto – in maniera sana – in giro per le strade, i risultati possono essere persino migliori di quelli di un’agenzia con esperienza pluriennale nel settore.

Negli anni poi, la storia di Progetto Arca ci dimostra che si è sviluppato in maniera più ampia il programma In-House.

Il face to face è aggressivo?

Quali sono i pregiudizi e i miti da sfatare quando si parla di F2F?

Il tema dominante è sempre quello dell’aggressività del dialogatore in strada.

Io non riesco a vederla in questo modo: in strada le persone ce le mandiamo noi, che siano nostre perché contrattualizzate dall’ente per cui lavoriamo, o che sia un ente esterno che formiamo e che ci assicuriamo porti la nostra faccia in maniera fruttuosa in strada.

Le persone sono aggressive se le formiamo a lavorare in maniera aggressiva.

Invece noi chiediamo al nostro personale un atteggiamento volto a ‘conquistare’ il potenziale donatore. Seguiamo certamente regole e tecniche. Ma cerchiamo sempre di dialogare in maniera sana e convincente, basando i pochi minuti che abbiamo a disposizione sulla sincerità e la passione che accompagnail nostro lavoro. Se ragioniamo così, io tutta questa aggressività non la riesco a immaginare.

Anzi, quasi mi scandalizzo quando ci diciamo che diamo per assodato che è un metodo di raccolta fondi in qualche modo aggressivo.

Mi dico che posso scrivere una lettera DM altrettanto forte, pungente e aggressiva di quanto può essere un dialogo in strada.

Posso inviare una dem che a tutti gli effetti può essere più forte o esasperante di quanto un mio dialogatore possa chiacchierare con un potenaziele donatore in strada.

Quindi questo, che è il grande pregiudizio, non è nemmeno da sfatare. Ma semplicemente non esiste, nel momento in cui formo bene il mio personale per dire quello che ha senso dire in strada e con i modi che ha senso mettere in atto.

Ed è per questo che funziona il mio programma In-House.

Certamente c’è qualche passante che si lascia convincere e poi non ha voglia di donare e allora, semplicemente, elimineremo il suo nome dal database e ci diremo che non sarà un nostro donatore regolare. Ma così come per tutti gli altri metodi e canali.

In linea di massima, i nostri donatori F2F durano con una caduta fisiologica, ma soprattutto donano, anche con tanti altri metodi. Rispondono sempre molto bene ai nostri appelli di Natale, per esempio. E questo vuol dire che sono appassionati, vuol dire che chi lavorava in strada, chi ha fatto firmare quella rid, non solo sapeva fare il suo lavoro ma sapeva farlo in maniera nobile.

La formazione dei dialogatori

ok, quindi diciamo che rispetto alla qualità dei donatori che potrebbe forse essere uno dei pregiudizi, tu mi stai dicendo che voi non registrate differenza fra un donatore acquisito tramite F2F e un donatore acquisito online per esempio, o spot in televisione…

Ti dico addirittura che i donatori F2F cadono molto meno di altri donatori che acquisiamo con altri metodi, la carta prima di tutto. Infatti, se formo bene i dialogatori, sapranno rapportarsi bene con chi incontrano, portando le persone a sottoscrivere una donazione sentita, adeguata, pensata e voluta. E‘ la formazione dei dialogatori che ha il peso più grande.

Quindi anche la formazione da parte delle agenzie…

Sì. Con le agenzie devi essere presente, ma non solo: devi raccontargli molto bene quello che fai e appassionarle.

Ad esempio, i nostri coordinatori portano dialogatori e team leader all’interno delle strutture di Progetto Arca, all’interno dei progetti, per vederli, comprenderli, farli propri e poter così dialogare al meglio in strada.

Lo stesso deve avvenire per le agenzie: per loro ovviamente non c‘è bisogno di formazione tecnica. Devo mostrare ad un‘agenzia il mio progetto. Così sono certa che i suoi dialogatori racconteranno al meglio la mia causa e i miei bisogni.

Grazie Alice, abbiamo sfatato due miti: la qualità del donatore acquisito tramite F2F, considerata di solito più bassa rispetto ad altri canali di acquisizione; il lavorare con provider esterni, considerato rischioso, ancora, da un punto di vista di qualità del donator e reputazione.

Assolutamente, sono in assoluto i miei donatori migliori, in termini di caduta e rendita da quando entrano in database.

Ma poi, anche se stai lavorando con un’agenzia, dopo un anno ti misuri con la caduta. Man mano andrai ad eliminare quei partner che non ti “convengono” da un punto di vista economico.

Benefici e criticità del face to face

Quali sono secondo te i principali benefici del F2F e le criticità?

I benefici sono, senza dubbio, in termini di relazione con il donatore: ti guardo in faccia, e ti racconto la verità delle cose e dei nostri progetti. Posso rispondere a qualunque domanda, ti posso appassionare, ti posso raccontare i veri bisogni. Ci guardiamo negli occhi, è la modalità più naturale per portare qualcuno alla donazione. Non c’è lettera, DEM che tenga. Ti guardo in faccia e ti racconto la verità.

Mi ricordo che quando ero a Dublino per me guardare chi passava e dirgli “i bisogni sono questi”, te li posso raccontare perché´ li ho visti e li conosco, era in assoluto il metodo migliore.

Le criticità sono quelle relative all’investimento. Che tu lo faccia In-House o con provider esterni, il primo anno in ogni caso vedrai una perdita.  Bisogna considerare necessariamente un investimento: le persone che sono in strada le devi pagare, perchè sono dei professionisti. In-House o agenzia, il personale andrà pagato e probabilmente rientrerai della tua donazione al secondo anno. Quindi senza risorse a budget, è difficile impostare un piano F2F.

Tanti hanno provato ad utilizzare risorse volontarie, ma così non stiamo più parlando di F2F. Per fare bene F2F, devi pagare dei professionisti che sappiano fare quel lavoro e che decidano di spendersi in strada, con tutte le difficolta di un lavoro che non è legato ad una scrivania davanti a un computer.

Ci sono poi i problemi burocratici che in Italia si discutono da anni: se hai in mente di costruire un programma In-House, come contrattualizzare le persone che hai deciso che scenderanno in strada per te, come retribuirle, se con un compenso fisso.
E se il compenso è fisso, quanto ti farà perdere nel caso in cui i dialogatori non siano abbastanza capaci. Insomma, questi sono tutti problemi di cui in Italia si discute tanto.

Credo che in Progetto Arca abbiamo trovato una formula funzionale: c’è un compenso fisso, perché i miei professionisti scendono in strada e utilizzano le loro competenze per ore ed è giusto ed onesto che vegano retribuiti. Poi c’è anche un compenso variabile che dipende da quanto la persona ha fatto intelligentemente il suo lavoro all’interno della giornata e da quante rid è riuscito a far sottoscivere a potenziali donatori.

Mi trovi totalmente d’accordo. Credo sia necessario trovare il giusto compromesso fra la necessità di gestire in maniera etica i fondi dei donatori, che sono quelli che utilizzi per retribuire i dialogatori, e l’esigenza di retribuire adeguatamente persone che passano molto tempo sul campo, in strada.

I requisiti per partire con il face to face

Quali sono i requisiti minimi per partire con un programma di F2F?

Innanzitutto avere budget. Il CDA dell’ente per cui lavori deve decidere investire o meno su quella linea. E non stiamo parlando di qualche decina di euro se vogliamo raggiungere risultati interessanti.

C’è poi bisogno di avere qualcuno che se ne occupi, non se ne può occupare qualsiasi collega del nostro ufficio raccolta fondi. Non puoi spostare persone che il giorno prima si occupavano di digital o di DM a fare F2F.

Non credo nei cambi di ruolo, nelle sostituzioni improvvise. Quindi semplicemente bisogna selezionare qualcuno che abbia esperienza, che sappia di che cosa stiamo parlando, che sappia muoversi in questo mondo e per questo mondo. Questa risorsa dovrebbe:

a) saper fare una buona selezione del personale da mandare in strada, nel caso in cui il programma sia In-House;

b) capire la logica della “location” e saper monitorare i dati, cosi da selezionare gli spazi più performanti per il programma, nel medio e lungo termine.

Bisogna avere un database funzionale, che dialoghi bene con le banche, perché le rid vanno mandate in pagamento ogni mese e devono pagare. Quando i volumi sono importanti, se salta un flusso di pagamento saltano centinaia di migliaia di euro.

È inoltre necessario avere un supporto dall’ufficio amministrativo, allo scopo di far funzionare i flussi bancari.

E, non ultimo, bisogna mettersi in testa che i donatori, se non vengono amati e “curati” adeguatamente, prima o poi si dimenticheranno di te.

Questo un tempo, per leggende di corridoio, sembrava un bene: non ti contatto così ti dimentichi del tuo pagamento regolare, come ti dimentichi delle bollette del gas e della luce, che tanto continui a pagare.

In verità non è così. Dico una cosa banale ma verissima: i dati di Progetto Arca dimostrano che più questi donatori li contattiamo, con un programma di donor care adeguato, più donano in altra maniera. Facevo prima l’esempio della campagna one off di Natale: se ti contatto a Natale e sei un donatore regolare e ti dico che ho bisogno di qualcos´altro, se durante l´anno ti ho adeguatamente contattato con il mio piano editoriale, con le mie newsletter, con i miei mailing a supporto, ti ho telefonato…molto probabilmente donerai anche a Natale perché semplicemente ti piace quello che faccio.

Campagne e mission

C’è qualche campagna che ti è rimasta particolarmente nel cuore ed una invece che non e andata come speravi?

In strada in verità noi non usciamo quasi mai raccontando campagne specifiche, lo facciamo molto raramente e se c’è un’emergenza.

Noi raccontiamo la verità dei fatti e cioè che durante l’inverno abbiamo bisogno di raccogliere perché le persone senza dimora sono in strada ed hanno freddo e quindi abbiamo bisogno di implementare in maniera forte i nostri servizi sul territorio di accoglienza, di assistenza e di distribuzione di cibo caldo.

D’estate raccontiamo l’altra verissima campana, e cioè che le persone senza dimora hanno bisogno anche di un supporto specifico per superare i mesi estivi più difficili, quelli in cui i passanti vanno in vacanza e quindi viene a mancare l’elemosina, in cui si ha sete, in cui il caldo fa male.

Quindi noi raccontiamo semplicemente i due aspetti dell’anno e continuiamo a raccogliere su quello, non per campagne specifiche.

A volte ci misuriamo con temi differenti e, come dire, non “performiamo” a mio parere di solito quando ci discostiamo troppo dalla nostra missione base. E cioè quella dell’assistenza ai senza dimora.

Faccio un esempio: anni fa, in Progetto Arca ci siamo occupati in maniera forte di migrazione; continuiamo oggi a farlo, ma meno degli anni precedenti. Ecco, come dire, parlare di migrazione a chi ci conosce perché lavoriamo invece per la causa delle persone senza dimora, e ci ama proprio per quello specifico tema, non è stato premiante per noi.

Anteprima Nonprofit Day

Quale tema affronterai al Nonprofit Day? Ti va di condividere qualche curiosità in anteprima?

Al No Profit Day racconterò perché credo fortemente nel face to face, cercando di sfatarne i pregiudizi (vecchi e nuovi che possano emergere) e raccontare perché funziona in Progetto Arca. 

Racconterò qual e la magia di Progetto Arca, perché continua ad esserci dopo dieci anni e cosa vuol dire mettere tutta l’anima per costruire un programma In-House.
Avere 70 persone contrattualizzate ad oggi che sono tutte tue, portano la tua faccia in strada, come se tu fossi li. È questo il vero frutto di questo programma. Vuol dire essere in 70 momenti al giorno davanti a persone che passano e che vedono la tua faccia lì il tuo logo. 

Racconterò questo cercando di dialogare con la controparte affezionata all’idea che il F2F non sia esattamente il metodo migliore o più sano per rapportarsi con chi può avere voglia di donare. 

In che modo il tuo speech può essere utile ai partecipanti del Nonprofit Day?

Senza dubbio per capire, se si è solo immaginato di fare F2F, se ci sono le basi per partire, che cosa può servire e se può piacere o no a chi mi ascolta o al CDA che sta dietro a chi mi ascolta. Anche perché se servono soldini per partire, questi vanno chiesti al CDA e dovrai sapere fare il tuo primo dialogo vero, stavolta non con un potenziale donare.

Un libro che ti ha lasciato tanto o ti ha insegnato qualcosa e che vorresti consigliare?

Negli ultimi anni ho iniziato a concedermi l’idea che lo storytelling, che racconti la ‘vera verità’ di una storia, la biografia più pura o quella più ‘realisticamente romanzata’, sia il metodo migliore per far sentire a un potenziale donatore la validità di una causa e soprattutto il significato del tuo lavoro. 

Mi viene in mente il libro di Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura. Non è la storia in sé, una storia di migrazione che mi aveva colpito, ma l’idea che raccontare la vita delle persone possa far sentire a chi hai davanti un’urgenza verso la donazione. Perché in fondo doniamo per aiutare persone vere, nient’altro che questo, per aiutare chi ha bisogno.

Raccontare storie di vita è è il metodo più funzionale per raccogliere fondi ed è quello che spero che i miei dialogatori portino in strada, perché certamente raccontiamo la causa, il brand, quello che facciamo ogni giorno, ma soprattutto raccontiamo le persone che stanno dietro alla nostra causa.