Gianluca Diegoli
Trend del Terzo Settore

Cosa resta di quello che raccontiamo? Intervista a Gianluca Diegoli

Oggi comunicare è difficile. È tutto talmente rapido e veloce, che solo il tempo per scrivere un contenuto lo fa diventare vecchio. La domanda chiave è: cosa resta di quello che raccontiamo?

Ce lo spiega Gianluca Diegoli, uno dei più noti esperti di marketing in Italia.

In attesa del suo intervento al Nonprofit Day del 26,27 e 28 ottobre, abbiamo chiacchierato con lui di marketing, persone, scrittura, storytelling, nonprofit e face to face. 

Cosa troverai in questo articolo

Il Marketing è l’essere umano

Iniziamo dalla tua storia, sei uno dei più famosi esperti di marketing in Italia. Che cosa ti appassiona di più della materia? Come e quando hai deciso di iniziare questa strada?

La cosa che mi appassiona è che in fondo lo studio del marketing ha a che fare con lo studio della varietà umana. Quando studio come le persone si comportano, come acquistano, come spendono i loro soldi, è necessario fare un esercizio di empatia notevole.

Soprattutto verso persone che sono diverse da te e si comportano in modo assolutamente diverso da te. Trovo che questa sia la parte più affascinante.

C’è un’altra cosa che mi ha spinto molti anni fa a intraprendere lo studio del marketing: l’ho associato a un grade interesse e passione per la tecnologia.
Non la tecnologia come la vede un ingegnere, non mi interessa l’efficienza della macchina. Io nella tecnologia vedo delle possibilità di esprimersi, nel bene e nel male.

Da questo punto di vista il marketing è una materia inesauribile, non si finisce mai di imparare:

le persone mutano, la tecnologia muta.

Non arrivi mai a un punto finale, si tratta di qualcosa che cambia continuamente mentre lo studi, per questo mi piace.

Quindi le persone per te sono un elemento essenziale del marketing. Ma sono le persone che influenzano il marketing o viceversa?

Non è una domanda banale.

Per molto tempo, fino anni agli anni ’80/90, ho avuto la percezione che fosse il marketing a influenzare le persone. Perché il marketing, attraverso la tv e tutti gli strumenti di massa, aveva una sorta di ‘controllo’ sulla popolazione. Le persone non avevano voce, fruivano in modo passivo.

Invece, con la diffusione di internet e della rete, le persone hanno ripreso parte della voce che gli era stata negata con gli strumenti di massa.
Perciò hanno iniziato a influenzare il marketing, ad avere un ruolo attivo nel processo di scelta, di fruizione, navigazione ecc.
E il marketing ha dovuto ambientarsi in questo nuovo mondo.

La scrittura è come una palestra

Seguo la tua newsletter e ogni venerdì, quando la leggo, mi chiedo: cosa spinge un professionista, già pieno di impegni, a prendersi tutte le settimane il tempo di scrivere questa bella newsletter? Finalmente posso chiedertelo.

La risposta facile è semplicemente che, quando ti piace fare qualcosa, la fai.

La risposta un po’ più complessa è che

scrivo la mia newsletter più per me che per gli altri.


È un modo per mettere giù le idee, i pensieri e dargli forma.

Per me la scrittura è come una palestra. A volte fai fatica a tirati su dal divano per andare a allenarti, ma poi quando lo fai stai meglio.
Su di me la scrittura ha questo effetto, perciò cerco di ritagliarmi sempre almeno un paio d’ore la settimana -ma se ce la faccio anche di più- per farlo.

Quindi anche per te il contenuto, e in particolare quello scritto, ha recuperato un ruolo centrale?

Penso che la parola scritta sia sempre più importante nella nostra vita.
Negli ultimi anni la scrittura è sempre più presente nella nostra quotidianità. Un esempio banale: esempio scriviamo un sacco di mail. Perciò comunicare bene, anche con la parola scritta, è essenziale.

Io ad esempio, non sono quello che ne sa più di marketing, ma sono quello che ne scrive di più. Ci sono altri che probabilmente ne sanno più di me, ma non divulgano.

L’esercizio della scrittura è molto importante. Scrivere quello che hai in mente serve per capire se effettivamente hai pensato abbastanza sulla tua idea, se sta in piedi, se è completa.
La scrittura è un filtro per mettere in ordine le idee, per mettere a fuoco l’argomento. E anche per dargli importanza: se mi predo la briga di scrivere un’idea, un concetto, vuol dire che è qualcosa per cui vale la pensa investire tempo e energie.

Lavori nel marketing da quasi 20 anni. Secondo te l’importanza dello storytelling attorno al prodotto è cambiata con la rivoluzione digitale di questi ultimi anni? Come?

Lo storytelling ha avuto un’incredibile accelerazione.

Ogni organizzazione oggi è praticamente una Media Company. La frase “Non si può non comunicare” è sempre più vera.
E per comunicare devi produrre contenuti. Quelli migliori, che bucano l’attenzione, sono proprio quelli in cui racconti qualcosa alle persone.

La sfida è capire come andare avanti con lo storytelling in un mondo dove l’attenzione è frammentata.
Si riesce ancora a cerare uno storytelling, se tutti lo fanno?
La storia ha ancora il suo potere o si perde nel mare di tutti gli storytelling esistenti?

Oggi comunicare è difficile. È tutto talmente rapido e veloce, che solo il tempo per scrivere un contenuto lo fa diventare vecchio.

La domanda chiave è:

cosa resta di quello che raccontiamo?

C’è un errore comune o ricorrente che riscontri nelle campagne di marketing e comunicazione?

Il peccato originale del marketing è dare troppe cose per scontato.

Ad esempio, dare per scontato che le persone sappiano di cosa stiamo parlando.
In molti settori si tende a pensare che la gente sia molto più attenta di quello che in realtà è. Ad esempio, che sia a conoscenza dei nostri modi di dire. Quando usiamo termini tecnici, sigle, termini gergali dovremmo chiederci: “Siamo sicuri che il pubblico capirà quello che sto dicendo?”

Lo vedo spesso anche nei volantini della grande distribuzione.
Ad esempio, lo sconto sui “grandi formati”. Cos’è il grande formato per una persona che non lavora in un supermercato?
Oppure i freschissimi”? Non è detto che la gente sappia che “i freschissimi” è un modo per chiamare la verdura.

L’errore più comune quindi, è pensare che le persone sappiano tutto quello che sappiamo noi.

L’altro errore è quello di vendere il trapano e non il fatto che le persone abbiano bisogno del buco.
Ovvero, ci focalizziamo su quello che facciamo, ma dobbiamo sempre ricordare che nessuno ha bisogno di un prodotto. Al contrario, tutti hanno un bisogno da soddisfare.

Questo non è solo un problema di comunicazione, ma anche di innovazione.
Qual è il prodotto miglior e che soddisfa un bisogno? Dobbiamo capire di cosa le persone hanno bisogno.

Ovviamente nessuno dei due errori è facile da arginare, perché quando siamo immersi nell’azienda in cui lavoriamo, vediamo tutto dal nostro punto di vista.

I bisogni dietro la donazione

Il concetto di individuare il bisogno del cliente -o del donatore- ritorna molto anche nel fundraising. Tu come pensi che si possa mettere in pratica nella raccolta fondi? 

Entriamo in un campo particolare. Credo che ci siano vari bisogni dietro la donazione.
C’è ad esempio un bisogno etico, di sentirsi meno colpevoli, più bravi, oppure il bisogno di sentirsi coinvolti in una certa opera, di partecipare in modo attivo ecc. Credo che a volte questi bisogni possano essere spiegati e sviluppati un po’ meglio.

Molta strada è stata fatta anche nel fundraising, ma c’è ancora margine di miglioramento.
Dato che non è detto che a tutte le persone interessino le stesse cose, se si segmenta meglio il pubblico si ottengono più risultati.
Invece…

si pensa che il senso di colpa sia l’unica strada possibile, o comunque la più efficace.

Nonprofit e marketing. Spesso ci scontriamo con il pregiudizio che il marketing non debba entrare nel terzo settore. Tu cosa ne pensi?

È una battaglia che combatto da sempre. “Marketing” è una parola spesso abusata o male interpretata.
Se consideriamo il marketing come una scienza occulta che influenza in modo persuasivo le persone, senza che queste se ne accorgano, va bene sono d’accordo che il marketing sia qualcosa di negativo.

Ma questa è una definizione secondo me non corretta, non attuale, e che anzi sopravvaluta il potere del marketing.

Il marketing per me significa cercare di creare un punto di scambio, di equilibrio tra quello che desiderano le persone e la necessità di un brand di farsi conoscere. Quindi anche una nonprofit ha bisogno di marketing, ha bisogno di comunicare con le persone, di capire cosa vogliono cosa può offrirgli. Che cosa c’è di male in questo?

Ci anticipi qualcosa del tuo intervento al NPday? Manteniamo la sorpresa sulla planaria, ci dici cosa pensi del F2F?

Ho una visione molto agnostica su queste cose. 

Credo però che dobbiamo misurare tutto. Quando valutiamo se il F2F funziona o no, misuriamo il ritorno economico, puramente dato dai numeri della raccolta. Ma dovremmo anche tenere in considerazione il sentiment che certi tipo di raccolte possono lasciare nel percepito delle persone.

Non tutti apprezzano il F2F, a non tutti piace questo modo di essere affrontati di persona.

In una metrica di analisi, dovremmo capire oltre al rapporto costi/benefici, anche gli eventuali svantaggi sul percepito dell’organizzazione nel lungo periodo. Se misuriamo, misuriamo tutto.

È un po’ il concetto dello spam, fatto salvo che agli spammer non interessa della propria reputazione: se 1 su 100 mi risponde va bene, ma gli altri 99?
Sto estremizzando ovviamente, ma anche sul F2F secondo me bisogna ragionare in questi termini. 

Se non misuri tutto, non puoi sapere l’impatto che una campagna di F2F può avere in termini di reputazione a lungo termine.

Ci racconti qualche tua esperienza con i dialogatori F2F? Sei di quelli che fanno finta di parlare al cellulare, o ti fermi a discutere? 

Sono ondivago, a volte mi metto il cappello del marketer e dico “vediamo cosa mi offrono”, a volte mi prendono alla sprovvista, a volte fingo di rispondere al telefono. 

Il F2F varia a seconda del momento in cui le persone vengono intercettate e in questo anche io non faccio eccezione.

Ci saluti con un libro che ti ha lasciato il segno e che dovremmo assolutamente leggere?

Il libro che ha cambiato la mia vita lavorativa è un testo -anche divertente – di David Foster Wallace, “Una cosa divertente che non farò mai più”.

Una Cosa Divertente Che Non Farò Mai Più

L’autore avrebbe dovuto fare brand content per una crociera, cioè partecipare a spese dell’azienda e fare un reportage. Quasi come fosse un influencer. In realtà la cosa deraglia e lui non fa una celebrazione della crociera, ma uno spaccato sulle persone, delle loro debolezze e delle loro velleità.

Per me è stato un libro davvero interessante perché, come ti ho detto all’inizio, l’esplorazione delle persone è la cosa che mi interessa di più nel lavoro nel marketing.