Spaccavento
Storie di nonprofit

Sergio Spaccavento, comunicazione, umorismo e nonprofit

Sergio Spaccavento è creativo pubblicitario, autore televisivo, radiofonico, cinematografico, docente universitario e conferenziere internazionale.

È Chief Creative Officer e partner dell’agenzia di comunicazione Conversion E3, è stato cosoggettista e cosceneggiatore dei film Italiano Medio e Omicidio all’italiana, delle serie tv Mario e Mariottide di Maccio Capatonda, dello spettacolo teatrale Il sesso e il segreto della felicità di Franco Trentalance, autore di sketch dello ZOO di 105.

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È un esperto di umorismo e autore di Che cazzo ridi?- Dialoghi sulla libertà di ridere. Un pirotecnico, divertente, spiazzante, profondo, superfluo libro-intervista che vuole approfondire il ruolo dell’umorismo contemporaneo per rispondere alla domanda: “Si può ridere di tutto?”.

Abbiamo avuto la fortuna di fare qualche domanda a Sergio su umorismo e comunicazione nel nonprofit, in attesa del suo intervento al Nonprofit Storytelling Day del 26, 27 e 28 ottobre.
Sergio, insieme a Maccio Capatonda e Cecilia Strada, parleranno del loro impegno nel sociale, dal branded content al “branded product for good”, fino all’umorismo nella comunicazione sociale e risponderanno alle copiose domande del pubblico senza peli sulla lingua.

Cosa troverai in questo articolo

Hai una carriera incredibile, piena di esperienze e riconoscimenti. C’è un’esperienza o un prodotto che ti è piaciuto più di tutti o di cui vai particolarmente fiero? Se sì, perché?

Il mio impegno professionale si basa sull’equilibrio di varie discipline e materie, non posso scegliere una cosa sola.

Cerco di avere un ‘livello di contentezza’  equilibrato e vario su tutti i diversi aspetti della creazione.
Mi disfinisco un creativo, nel senso che la mia creatività si realizza con la creazione di qualcosa, non sull’ideazione di un pensiero che rimane su carta o nella testa di qualcuno.

Perciò è impossibile dire qual è il prodotto che mi ha reso più felice, dovremmo spaziare su tutte le varie materie e per lo meno restringere il campo.

Restiamo allora nell’ambito del nonprofit, qualcosa che abbia un risvolto sociale.

In questo caso mi viene da dire Welcome?  un’opera prodotta insieme a Federico Clatis per Mediterranea.
È stato interessante creare qualcosa che fosse il detonatore per aprire una discussione, per creare dibattito e dialogo, non solo in Italia, ma in diversi paesi del mondo. Per la prima volta nella carriera ho toccato punto di creatività artistica, che ha prodotto un flusso di pensiero importante. Questo mi ha reso molto orgoglioso.

Poi c’è un progetto di poche settimane fa con l’organizzazione Differenza Donna. Si tratta di una campagna di fundraising in azienda per cercare di attivare le persone giuste al momento giusto.

Abbiamo inviato a delle aziende, tramite posta ordinaria dei finti curriculum vitae

Dimensione Donna

Su una pagina si raccontava, proprio come se fosse un CV, la storia di una donna che aveva tutte le carte in regola per ambire a un lavoro in quella azienda. Però, per varie vicissitudini, tra cui un marito violento e gender gap all’interno di aziende precedenti, aveva visto la sua carriera stroncarsi. Il finto CV occupava una pagina e sul retro si spiegava cosa facesse come potesse intervenire sul problema Differenza Donna.

Per me è stato un esempio vero di direct marketing ad personam. Si trattava di una campagna davvero personalizzata e coinvolgente. Anche grazie al fatto che c’era anche una mailing list profilata con nomi di HR e chi si occupava di CSR in azienda.

Di solito le lettere di raccolta fondi arrivano in maniera massiva, puoi fare dei cluster, ma l’effetto è comunque di un qualcosa di meccanico. Invece questa campagna, crea un’esperienza vera e personale per chi la riceve. IL CV è molto verosimile. Chi apre questa lettera non si trova in una narrazione passiva, ma segue dei vari passaggi narrativi con un’esperienza fisica vera. Prima ci crede, poi si dice “ma cosa succede, forse c’è qualcosa che non va” e poi capisce il senso della campagna.

Umorismo e nonprofit

Sei un esperto dell’ironia nel mondo contemporaneo. Cosa pensi di ironia per comunicare il nonprofit? Quali sono per te le migliori campagne nonprofit che usano l’ironia?

Faccio una precisazione, io non paro di ironia, ma di umorismo.
L’ironia è una parte dell’umorismo, e spesso è sinonimo di sarcasmo. Io mi occupo di umorismo in generale.

Detto questo, non è certo una mia invenzione che l’umorismo sia un tono di voce che la maggior parte nelle volte premia. Sia nella comunicazione politica, quella politica, sia interpersonale, sia di un brand ecc.

Bisogna però saperla dosare.
Perché l’umorismo, a differenza della tragedia, ha molte più chiavi di interpretazioni, più sfaccettature, più costruzioni narrative che si differenziano in base al periodo storico, al target, al luogo geografico ecc.

L’umorismo non deve essere usato giusto per far ridere. Soprattutto nel mondo del sociale, che è comunemente ritenuto un mondo ‘serioso’, più simile al dramma che alla commedia. C’è una tendenza al cercare il senso di colpa per generare donazioni, a volte facendo leva sulla vanità di chi va a donare per pulirsi la coscienza, oppure come obbligo di alcuni brand che si devono occupare di CSR, scadendo a volte anche nel greenwashing.

Partendo da questi presupposti dobbiamo accettare che il nonprofit sia un campo minato, in cui dobbiamo fare attenzione a non offendere, a non sembrare superficiali ecc.

Oggi poi le cose si sono complicate ancora di più per il politicamente corretto a tutti i costi, l’equilibrio totale di vari generi ecc.
Vediamo tutti i giorni crociate senza senso che manipolano ogni battuta o frase, che viene considerata sbagliata a priori.
Oggi fare un umorismo efficace, è complicato, proprio perché l’umorismo non può piacer a tutti, nasce spesso da conflitto, dalla satira sociale, dall’inciampo di qualcuno.

Nonostante ciò, ci sono tantissimi casi virtuosi sia nazionali sia internazionali. Però vengono da Content creator e non da agenzie creative o direttamente dalle organizzazioni. Penso ad esempio a The Jackal, Michela Giraut, Maccio Capatonda ecc.

Questo succede perché se prendi un personaggio che ha già un ruolo nella società e nei social che rispecchia il suo pensiero comico e lo si applica a una causa sociale diventa tutto più semplice in termini di accettazione del pubblico. I Content creator, dato che sono dei professionisti e conoscono la disciplina, sono, sono attentissimi a non sbagliare. Non sono dilettanti e conoscono gli errori che non bisogna commettere, è un aspetto da non sottovalutare quando si scegli di usare il tono umoristico.

Invece, nel momento in cui un ente terzo o esterno crea una storia dove si cerca di stimolare il target del pubblico con un tono di voce comico, si corrono dei rischi, perché il cecchino degli hater del ‘politicamente corretto’ ha più facilità nel creare una distonia nel dialogo.

Buone pratiche tra profit e nonprofit

Tutti si chiedono sempre cosa il nonprofit debba imparare dal profit. Io voglio farti la domanda al contrario. Che cosa c’è di positivo o che funziona bene nel nonprofit che il mondo del profit dovrebbe imparare?

Il genio che, a volte, viene stimolato dalla mancanza di grandi budget. Il tentativo di dire “abbiamo pochi soldi, come facciamo a lavorare meglio con le risorse che abbiamo?” e trovare una soluzione.

E poi sicuramente il lavoro preciso che il nonprofit fa sulla fidelizzazione del donatore. Il mondo del nonprofit ormai ha chiarito da tempo che i donatori non sono passanti, avventori di un negozio, ma una vera community.
Perciò c’è molta attenzione al loro al sentimento e al loro feedback. Per me è una cosa interessante che a volte il profit dimentica.

In ultimo, penso che chi lavora nel fundraising, al 99% sia mosso da una vera passione. E chi ha questo tipo di passione mediamente ha la spinta ad andare avanti, imparare costruire non solo data dall’inerzia dell’azienda.  A volte nel profit si tende ad andare avanti in modo un po’ passivo, perché ‘lo si deve fare’. Nel nonprofit secondo me questo non succede. C’è una voglia, un impegno a voler migliorare il sistema, un interesse nel sociale che rende anche il lavoro più dinamico, armonioso.

A questo punto te lo chiedo: al contrario, cosa dovrebbe imparare dal profit?

Manca la matematica, il pensiero che il lavoro deve essere considerato spietato.
Se da un lato c’è la passione, la spinta a voler migliorare il mondo, dall’altra parte bisognerebbe richiedere sempre il massimo della professionalità. Che va pagata e riconosciuta, sia per chi lavora internamente, sia per le collaborazioni esterne con i fornitori.

Il lavoro nel nonprofit non deve essere semplificato solo perché ha un obiettivo considerato superiore. Bisogna far quadrare i conti, dare il massimo, far quadrare tutte le fasi di un progetto. Insomma, avere sempre un pensiero professionale e imprenditoriale.
A volte nel nonprofit ho la sensazione che manchi un po’ il piglio manageriale.

Instant marketing e nonprofit

Parliamo di Instant Marketing. Secondo te è efficace anche per il nonprofit? Ci sono delle differenze rispetto a un brand profit?

L’Instant marketing fatto bene può nascere solo se ci sono due condizioni di partenza date, che non possono essere dimenticate.

Per prima cosa il brand deve avere una sua presenza sui social, con un carattere ben preciso. Deve avare sviluppato una sua personalità, come se fosse un avatar con nome e cognome. Deve avere un modo di parlare, dei valori riconosciuti, un modo di scherzare.

Si tratta di una presenza rotonda, tridimensionale e riconosciuta.
Non puoi essere lì in modo impersonale, istituzionale e poi metterti a fare Instant marketing, perché ti manca la credibilità e la solidità per farlo.

In secondo luogo, il brand deve avere la sensibilità per riuscire a cogliere e sviluppare nel giro di poche ore gli spunti che arrivano all’improvviso. Mi riferisco quindi a un tipo di Instant marketing che non è prevedibile. Non parlo del Natale o della giornata degli abbracci, ma da un tipo di comunicazione che predo spunto dalla cronaca, dall’attualità. Anche perché l’hype lo cogli con un momento imprevedibile. Però devi avere la sensibilità per dire “è successo questa cosa, come la traduco con la personalità che ormai ho dimostrato alla rete?”

Attenzione, perché non è la personalità del presidente né del social media manager, ma dell’‘avatar’ di cui parlavamo prima, che ho cerato con un gran lavoro sui social.
Bisogna mettere da parte la questione personale, il “non mi piace”, “non sono d’accordo”. Non devi dirlo tu, deve dirlo l’associazione, e non devi avere paura di esporti.
Se pensi che tutto quello che fai vada sempre bene a tutti non avrai mai una posizione virale sui social. Se non fai fare uno switch emotivo, non apri una provocazione, non prendi posizione, non puoi fare  comunicazione Real Time efficace.

Perciò sfruttare le potenzialità dell’Instant marketing non è una questione di profit o nonprofit, ma di avere queste condizioni di partenza.

Anteprima Nonprofit Day

Ci dai qualche piccola anticipazione sulla tua plenaria? Che si guadagna a fare del bene secondo te?

Saremo io, Cecilia Strada e Macio Capatonda: tre personaggi che hanno delle pozioni curricolari diverse e complementari.
C’è chi come Cecilia ha lavorato in prima persona nel nonprofit.
Io che di base sono un pubblicitario e quindi ho un’agenzia che spesso ha lavorato con il nonprofit.
E Macio che è un comico, un Content creator che ha toccato più volte, come testimonial, più volte l’argomento nonprofit. Abbiamo collaborato tante volte. Nella nostra plenaria vogliamo fare incontrare questi tre punti di vista, che non sempre vanno nella stessa direzione.

Poi una cosa interessante di cui ci siamo resi conto è una alternativa del branded content. Ho coniato un nuovo termine che non so se esista, ma mi piace parlare ‘branded product for good’.

Mi spiego meglio. La comunicazione classica lavora a un livello sia razionale sia emotivo e lavora per stimolo/risposta. Vedo un’affissione, vedo una campagna mentre sfoglio il giornale, sono su Facebook e mi capita il video della determinata associazione, Insomma, ci sono diversi passaggi, dalla comunicazione diretta, a quella di intrattenimento, spesso è più emotiva.

Però c’è una cosa che è stata fatta da diverse realtà, ma potrebbe avare un valore ancora più forte.
Un’esperienza omni comprensiva, che nasce da un prodotto, un oggetto. Non è il merchandising della maglietta di Emergency, che comunque ha una grande importanza, è stata una bandiera, carica di iconografia, significato, presa di posizione importante.

Io penso a un altro tipo di oggetto, le tazze di Macio per il WWF, il mio libro dove c’è una presenza importante di rescue, non solo la frasettina che dice “doniamo i soldi a questa organizzazione” ecc. 

Si tratta di oggetti veri, che diventano un’esperienza, che abbiano un senso (per intenderci, non la matita con scritta il nome dell’organizzazione) quasi al limite con un’opera d’arte contemporanea.
È un’area della raccolta fondi che in qualche modo esiste, ma che potrebbe essere ancora più navigata, approfondita, immaginata.

Grazie mille Sergio, è stato un piacere parlare con te. Ci vediamo al Nonprofit Storytelling Day.