Paolo Iabichino
Storie di nonprofit

Paolo Iabichino e la pubblicità per il nonprofit

Tra le varie attività di Fundraising.it ci sono le interviste a persone che lavorano nel Terzo Settore, ma anche varie persone al di fuori del settore nonprofit. Si tratta di professionisti con diverse esperienze, capaci di dare una prospettiva diversa al lavoro del fundraiser.
È il caso di Paolo Iabichino, creative advisor. Lui guarda, ascolta e poi scrive pubblicità.

Inizio con una frase dal tuo libro Scripta volant: “Nel panorama contemporaneo grazie a web e social la scrittura è tornata sulla scena”

Per chi ha iniziato a costruirsi professionalmente dentro la scrittura digitale, la scrittura ha un ruolo. Quando è nata la rete, è nata una nuova scrittura. L’utente davanti al monitor collegato alla rete è molto diverso dall’utente davanti al monitor della TV. Perché con la rete improvvisamente era l’utente a decidere cosa cliccare e quindi bisognava ragionare in modo diverso.
La grande lezione dal punto di vista creativo era questa: non ero più io a stabilire le regole del gioco ma chi c’era dall’altra parte, l’utente.

Prima non c’era interazione, adesso  ascoltiamo gli utenti sui social

Sì adesso li ascoltiamo! Oggi abbiamo una capacità di ascolto del cliente elevata all’ennesima potenza. Ci illudiamo di poterli fruire, ma in realtà non è così. Le campagne più belle però sono quelle che intercettano grandi tensioni culturali.

Per la maggior parte delle persone comunicare significa mettere in scena la propria verità raccontare la propria idea di sé. Per te, invece?

Da sempre chi comunica è  concentrato in maniera ombelicale a raccontare la propria storia. Da qualche anno vincere la bagarre sui canali social significa smettere di raccontare il ‘cosa’. E iniziare a raccontare il ‘perchè’.
Perché stai facendo quello che stai facendo?
Nel momento in cui chiedi del denaro a un utente, fai un patto. E vale sia per il profit, sia per il non profit. Stabilisci con lui che la nostra missione, quella in cui crediamo, è unica e rilevante.

Valerio, prova a fare un passo indietro. A coinvolgere l’altro nella produzione di contenuti particolarmente rilevanti, coinvolgenti, non necessariamente divertenti. A sorprendere l’altro per alzare la soglia di attenzione nei nostri confronti.

Ma stai chiedendo alle organizzazioni di investire in qualcosa che non è la raccolta diretta?

Sì! E pensa a dirlo al tavolo marketing dove c’è il commerciale! Pensa l’effetto che fa dirgli di investire 100 in qualcosa il cui fine ultimo non è andare a scaffale, vendere.
Eppure da qualche anno a questa parte sta funzionando in maniera straordinaria la produzione di contenuti disinteressati. È comunque un disinteresse fittizio. Cioè io sono interessato ai tuoi soldi, ma voglio arrivarci con un giro più lungo, con tempo, voglio che tu mi scelga fra mille.

Secondo me è il contrario. È il profit che copia dal nonprofit.

Ci copiamo a vicenda. Solo che nel profit si fanno i video virali con 800mila euro di budget di produzione. Nel nonprofit  con 8mila e ci stupiamo che il risultato sia diverso! Non possiamo scimmiottare le logiche comunicative del profit se non stiamo alle stesse regole (e budget!).

Quindi secondo te bisogna comunicare chi si è. Per esempio come fa Nike, che prende una posizione politica con il giocatore che si inginocchia. O Patagonia, da sempre impegnata in politica.

Quello che fa Nike con #justburnit è brand activist. nella campagna Nike usa il giocatore di football che durante i play off si era inginocchiato, anziché tenere la mano sul cuore restando in piedi. Per questo era stato licenziato per due anni. Nike lo sceglie come testimonial per dire “Noi crediamo in questi diritti, valori”. Così mette il consumatore davanti a una precisa scelta di campo.

Ma così schierato perde una fetta di donatori.

Il tema non è più acquistare la marca. Bisogna essere convinti che quella marca incarni dei valori. C’è una comunione di destini tra il consumatore e la marca. Se io ho determinati valori posso vestire solo certe marche. Nella mia dispensa devo mettere solo certi tip di cibi. Lavarmi con determinati prodotti ecc. Tutta la scelta dei consumi è diventata politica. Se funziona nel profit allora vale anche nel nonprofit. Le nuove generazioni staranno nel mondo solo e soltanto in questo modo.

Eppure Ambercrombie ha tolto il logo dai suoi capi

Non c’è una verità. Se ostento la marca ho ragione. Ma anche se la tolgo. L’importante è risuonare nel mondo dei consumatori. Così come in quello dei donatori. Io devo risuonare con il destino della persona a cui rivolgo la comunicazione. E se non ci riesco, lo mollo! Mollalo Valerio! Pulisci il database, fai un lavoro forte e coraggioso, non ha senso inseguire frotte di consumatori, con le carestie, la pornografia del dolore, molla il colpo, trova un racconto diverso!

Tu scrivi anche: “Se una campagna non viene costruita intorno a un grande ideale (non idea) è destinata a fallire”. Abbiamo bisogno di testimonial credibili? E gli influencer?

Quello che ‘sento’ sui testimonial sta nel rapporto tra marca -o organizzazione nonprofit- e pubblico. In molti casi questo rapporto lo sento scollegato. La marca finisce per delegare al testimonial un messaggio che altrimenti non arriverebbe. Penso a George Clooney una volta su un’auto, un’altra a bere caffè. Penso invece al rapporto straordinario che le Lega del filo d’oro ha con Renzo Arbore. Un rapporto continuo, da anni. Lui è la voce narrante di quell’organizzazione. Penso a Checco Zalone per la sla: una campagna straordinaria. Scritta da lui, che non ha mai fatto altri interventi pubblicitari, e quindi il suo peso è elevato all’ennesima potenza. Questo è l’utilizzo che io voglio, non a cachet, ma il pieno coinvolgimento nella causa. Non quello che ha più visibilità, non “me ne fotto che il testimonial sia coinvolto, mi va bene che su Instagram abbia 200mila visualizzazioni”, e poi non vado a vedere se la mia causa ne ha tratto un vantaggio.

Cioè quello che conta è il lungo periodo?

Tieni presente che siamo nell’era Covid, dove raramente si fanno riflessioni a lungo periodo. E, invece, è così. Bisogna avere una visione di lunga gittata, buttare la palla avanti, agire tatticamente, strategicamente, impiantare racconti nuovi. Tornano gli strumenti antichi come le Newsletter, i Magazine. Perché, l’importante è far tornare nei propri canali la relazione con il donatore. Ci siamo illusi di creare relazione su Facebook, ma non è così! Dobbiamo essere capaci di costruire relazioni dentro i nostri sportelli, negozi.

C’è un’immagine del tuo libro che mi ha colpito particolarmente, perché ho una figlia tredicenne in piena contestazione. Tu scrivi che comunicare è come attaccate il poster nella camera della figlia adolescente. Bussi con cautela, chiedi permesso, entri con attenzione e mentre attaccate l’ultimo angolo del poster la figlia dice ‘beh’. Consideratelo un like. Poi potrà condividerlo con la sua community, ma in ogni caso la settimana dopo il poster lascerà il posto ad altro”.

È l’atteggiamento che devo avere sui canali sociali a fare la differenza. Ci vuole un atteggiamento progettuale. Prima di cominciare a scrivere bussa, chiedi il permesso, poi prova a mettere lì la cosa che tu credi possa a piacere, se non ti lancia la ciabatta è andata bene, esci e stai pronto che la settimana dopo l’interesse cambia.

Siamo come il genitore che chiede di essere continuamente sintonizzato con il proprio ragazzo. Dobbiamo continuamente tendere l’orecchio, spogliarci della nostra ombelicalità.

Siamo terrorizzati dai commenti negativi, ma rispondi! Anche in maniera fulminante! Il troll è troll per definizione ce l’avrai sempre quello che viene a creare il dissapore. La scrittura ha bisogno soprattutto di ascolto, occorre ascoltare i propri interlocutori. Come può cambiare una campagna se continui a parlare di target? Dal momento che prendi di mira qualcuno e ti interessa portare a scaffale? Qui invece vince l’atteggiamento progettuale. Qui vinci se fidelizzi.

È un modo di stare che sentiamo molto nostro, condividiamo in pieno. Grazie Paolo.