nonprofit Pallotta
Trend del Terzo Settore

Il futuro del Nonprofit – Dan Pallotta vs Stefano Zamagni

“Basta stare chiusi in una scatola. Siamo immobilizzati da troppo tempo, è ora di cambiare! Ci vogliamo limitare a fare quello che abbiamo sempre fatto o vogliamo stravolgere il nostro modo di agire? ” Con questo spunto si è aperto il Nonprofit day, che ha visto il confronto tra due giganti del nonprofit: Stefano Zamagni e Dan Pallotta.

Ti sei perso l’evento? Rileggi tutte le principali idee che hanno lanciato Dan Pallotta e Stefano Zamagni. Poi torna in ufficio e fai cambiare la mente del tuo capo, dei tuoi donatori, della gente che non sa nulla di nonprofit.

Apri gli orizzonti. Esci dalla scatola!

Due visioni per la prima volta a confronto

Pallotta e Zamagni hanno lanciato idee, spunti, provocazioni per ragionare sul terzo settore, in un periodo storico in cui più che mai abbiamo bisogno di confrontarci, ripensare tutto.

Dan Pallotta, Imprenditore, scrittore e attivista umanitario americano, in collegamento da Boston, ha smontato tutto quello che discrimina il nonprofit rispetto al profit. Dan ci ha presentato, con riflessioni semplici ma spiazzanti, una nuova e rivoluzionaria idea di intendere il nonprofit.

Stefano Zamagni, Il più importante economista e garante del nonprofit italiano, ha ripercorso la storia del nonprofit italiano, suggerendo la via da percorrere per ridare al nonprofit un ruolo centrale, valorizzandone anche il ruolo intrinseco e relazionale.

Il nonprofit è discriminato?

DAN PALLOTTA – il nonprofit non può fare quello è concesso al profit

Quando ero a Harvard, volevo fare qualcosa di socialmente utile. Erano gli anni 80’, all’epoca c’era problema dell’Aids. Ho inventato un format di rider, corse lunghe in bici, che attraversavano vari stati a cui partecipavano soprattutto giovani e studenti. In pochi anni abbiamo raccolto centinaia di milioni di dollari.
Eppure venivamo criticati perché facevamo certe cose, che invece chi faceva business era autorizzato a fare: spendevamo soldi per pagare annunci pubblicitari sui giornali, avevamo corso dei rischi pianificando queste attività innovative. Eppure nessuno criticava la Apple per aver investito e rischiato.

Eravamo discriminati rispetto al profit. Eravamo in prigione.

STEFANO ZAMAGNI – il welfare state ha indebolito il nonprofit

Il contesto italiano è particolare. È molto diverso da quello americano. Il terzo settore ha una storia antica e gloriosa. Gli enti del terzo settore sono nati, in terra di Toscana, nel 1200. Si chiamavano confraternite. Inoltre la matrice cattolica italiana valorizza la creazione di ricchezza. Produrre valore è un bene. A patto che sia inclusiva. E qui ancora, il terzo settore è culturalmente ha un ruolo centrale.

Ma allora, come mai in Italia, a partire dal secondo dopo guerra, le cose sono andate come sono andate? Perché  la tradizione di pensiero italiano sul terzo settore, dopo 700 anni di storia gloriosa, ha subito una rottura?

Perché è nato il welfare state. Lo stato diventa il garante del benessere dei cittadini, che pagano le tasse e quindi si aspettano determinati servizi. Se c’è lo stato, che bisogno abbiamo del nonprofit? Negli ultimi 30 anni Il welfare state ha fatto sì che gli enti del terzo settore perdessero di potenza. In Italia non è una discriminante di strategia di mercato come negli USA. È una perdita di senso culturale.

Dan Pallotta intervistato da Valerio Melandri
Dan Pallotta intervistato da Valerio Melandri

Cosa pensi degli stipendi di chi lavora nel nonprofit?

DAN PALLOTTA – Il profit può pagare le persone sul valore che producono

Se produci più valore per la mia azienda, posso pagarti di più, posso investire per avere le tue competenze. Nel nonprofit non si può fare. Non si può premiare chi porta cambiamento sociale. Perché chi porta valore sociale, non può guadagnare bene?

Nel nonprofit critichiamo chi ha salari altri, ma non ci chiediamo che valore sta producendo. Perché se pago tanto una risorsa e non produce valore è uno spreco. Ma se pago 1 milione di dollari a una risorsa che ne produce 2, allora quello stipendio è ben speso. Perchè questo discorso non si riesce a far capire al nonproift?

STEFANO ZAMAGNI – valorizziamo le motivazioni intrinseche

Dan dice dovremmo pagare un manager del nonprofit come nel profit. Io credo che siano altre le leve che il nonprofit deve cavalcare per gratificare i suoi dipendenti.
La maggior parte delle persone che scelgono di lavorare nel nonprofit lo fanno perché animati da motivazioni intrinseche, da valori relazionali e di soddisfazione personale.
Le cose vanno male nel nonprofit non perché uno viene pagato meno, ma perché non è messo nelle condizioni di soddisfare le motivazioni intrinseche che lo portano a scegliere un lavoro piuttosto che un altro.

Perché non paghiamo le persone in base al valore che producono?

Interesse personale e interesse collettivo? Che cosa entra in gioco nel terzo settore?

DAN PALLOTTA – come facciamo a attrarre i migliori professionisti, se non li paghiamo?

Ogni essere umano ha una doppia tensione verso un interesse personale e il bene comune. L’incrocio tra l’interesse personale e il bene comune è una sfida. Però il bene comune attrae di meno di quello personale. L’interesse personale storicamente vince su quello comune. Se noi, a chi lavora nel nonprofit, diamo solo l’opzione del bene comune la gente migliore scapperà.

Anzi, la questione più ancora più grave:

Nel profit puoi sviluppare sia l’interesse privato che collettivo, nel nonprofit no. Ad esempio puoi lavorare in aziende impegnate in progetti socialmente utili (innovazione tecnologia, ricerca scientifica ecc.) e fare sì che il tuo lavoro abbia un grande valore. E in più, puoi avere abbastanza soldi da poterne donare una bella fetta a una charity.

Una persona che decide di lavorare nel nonprofit invece può appagare solo l’interesse comune, deve decidere di rinunciare a quello personale. E sentire il paradosso: se un magare rinuncia a un terzo del suo stipendio per lavorare in una nonprofit, viene visto male perché si arricchisce sulle spalle dell’organizzazione. Lo stesso manager che invece lavora nel profit e dona una piccola parte del suo stipendio a un’organizzazione e diventa un benefattore, viene osannato, gli si fanno addirittura le targhe commemorative.

ZAMAGNI – bisogna gratificare i lavoratori, ma non solo con stipendi più alti

Ci sono motivazioni estrinseche (il salario) e intrinseche (valori, relazioni) nel lavoro. Il nonprofit dovrebbe investire per valorizzare le motivazioni intrinseche, non solo per dare stipendi più altri. Come? Io credo ci siano tre vie:

  • Investire sul capitale umano

Vuol dire investire per migliorare la vita di chi lavora nella mia organizzazione. Ad esempio permettendo a un giovane di andare 6 mesi a formarsi e lavorare all’estero. O magari concedendo un’aspettativa retribuita a una persona che ne ha bisogno.
devo coltivare il capitale umano della mia organizzazione, altrimenti mi trioerò dei manager che non sanno fare il loro lavoro. Posso anche pagarli di più, ma continueranno a non saper fare il loro lavoro.

  • Investire sul riconoscimento sociale

Chi lavora nel nonprofit ha bisogno di essere riconosciuto., di far sapere agli altri il bene che fa. È un mio bisogno sapere che altri apprezzeranno il lavoro che faccio nella mia onp. E che posso avere una posizione sociale prestigiosa anche lavorando in una onp e non solo facendo il top manager nel profit.

  • Garantire una struttura aziendale democratica e non tayloristica

Il modello tayloristico, gerarchico, in cui devi rispettare chi sta sopra di te, anche se è un cretino, è per il profit. Chi fa nonprofit rifiuta questo modello, cerca un modello democratico. In cui le persone possono interagire. E l’ultimo arrivato, anche se giovane, può esprimere la propria idea.
Ma nella realtà non funziona così. E questo è un problema. Se non si consente di applicare al nonprofit un modello di governace democratico, mancherà sempre un benefit fondamentale del lavoro nel terzo settore.

Stefano Zamagni ribatte alle dichiarazione di Dan Pallotta
Stefano Zamagni ribatte alle dichiarazione di Dan Pallotta

Costi generali. Molte persone quando pensano al nonprofit, trovano virtuose le organizzazioni con spese generali basse. Come mai?

DAN PALLOTTA – è una domanda sbagliata perchè non dice nulla sugli impatti

Le persone chiedono delle spese generali perché è una domanda semplice, con una risposta elementare. E le persone amano la semplicità.
Ma è una domanda sbagliata. I costi generali non dicono niente sulla qualità dei servizi che un’organizzazione sta fornendo.
Se una charity dice “Le mie spese generali sono solo il 5%” noi pendiamo che sia virtuosa. Ma non è detto. Siete sicuri che quel 95% sia usto bene? Magari no e stanno sprecandole vostre donazioni.
Ad esempio, pensate alle mense per i poveri. Un’organizzazione dice: ”Spendo il 95% dei miei introiti per le zuppe per i poveri”. Un’altra dice “Noi solo il 70%”. E allora pensiamo che la prima sia più virtuosa. Poi andiamo a vedere meglio e ci accorgiamo che la prima mensa ha servizi igienici terribili e cibo scadente. Invece quella del 70% è pulita con cibo ottimo. Non è migliore la mensa che destina il 70’% e non il 90% ai progetti e ha costi generali più alti?

Le domande devono essere sulla dimensione dell’impatto. Non sulle spese generali basse. Se io ti dico le spese sono basse e non metteremo fine alla povertà. Oppure, le nostre spose sono il 40% dei nostri fondi, ma  metteremo fine alla povertà. Tu quale modello scegli?

ZAMAGNI – Il discorso delle spese generali basse a tutti i costi è ridicolo, inutile.

Io mi sono sempre battuto contro l’idea che le spese generali debbano essere basse per forza. Chi ragiona così non ha le basi economiche della joint production. Per ottenere un risultato ho bisogno di un fondo. Il fondo sono le spese generali. Se tu non concedi l’arrivo di risorse al fondo (ovvero alle spese generali) terrai il tuo ente in scacco.

Non dobbiamo chiedere solo soldi, ma di entrare a far parte della nostra causa.

Inoltre molta di questa ossessione sulle spese generali basse arriva dall’intrusione dello stato nel terzo settore. Come mettere un tetto sugli stipendi, o le gare d’appalto al ribasso. Non si possono mettere vincoli al lavoro del terzo settore. Soprattutto se non hanno né razionalità né legittimazione lecita.

Come si fa a convincere un CDA a investire nel fundraising, a rischiare, se non vuole?

Dan Pallotta – Bisogna mostrare loro che i soldi investiti nel fundraising si moltiplicano

Devi convincere il tuo CDA a fidarsi che, investendo, si possono costruire percorsi che daranno frutti nel tempo. Altrimenti si rimane piccoli. Perché ci sono tante piccole charity? Le organizzazioni affrontano grandi problemi? Come possono dare risposte grandi se sono organizzazioni piccole?
Bisogna ragionare in un’ottica di crescita. Non abbiamo migliaia di aziende che vendono cellulari. Ne abbiamo poche grandi, perché invece le charity non lo fanno? Perché non uniamo le forze con altre charity?

STEFANO ZAMAGNI – troviamo un nuovo modello per il nonprofit

Se applichi al nonprofit a stessa logica aziendale, che è quella che crea ingiustizie sociali, è una contraddizione. la logica della produttività a ogni costo, genera molte ingiustizie sociali e si chiede a nonprofit di correggerle, di ridurre le diseguaglianze, l’esclusione sociale ecc. Ma se poi applico al nonprofit la stessa logica di produttività aziendale, che senso ha?

Dobbiamo passare dal modello stato/mercato al modello stato/mercato/comunità. Il nonpofit si presenta con la missione di complementarizzare quello che il mercato e lo stato da soli non possono fare. Il nostro benessere dipende dall’incrocio tra beni privati, pubblici, relazionali e comuni. Nella tradizione economica americana si è sempre pensato che il benessere dipendesse dai beni privati. Ma non è così, il bene relazionale è essenziale.

Si può convincere i donatori a pensare in modo diverso?

DAN PALLOTTA – ci vuole impegno e costanza, ma si può fare

La mia causa è cambiare il modo in cui il mondo pensa alle charity. Mi impegno per fare in modo che il nonprofit venga pensato in maniera innovativa. non è facile, ma si piò fare.
Ad esempio, quando ho fatto coming out a 18 anni i miei genitori hanno pensato che la mia vita fosse finita. Ma non è stato così, perché milioni di gay hanno fatto cambiare mentalità alla società. Oggi ho un marito e 3 figli. C’è stata una rivoluzione culturale. Nel fundraising dobbiamo fare lo stesso.

Ho scritto un libro per i donatori, The everyday philantropy, per far comprendere loro quello che sto dicendo adesso.

STEFANO ZAMAGNI – cambiamo il modo di intendere il fundraising

Bisogna tornare al mecenatismo, in cui le grandi menti erano disposte a impegnarsi nei progetti sociali, a prendersene cura, valorizzando i beni relazionali e comuni che riempiono il terzo settore. Il mecenate è più del filantropo. Il filantropo è solo uno che tira fuori dei soldi. I mecenati seguivano, mettevano idee, si prendevano cura di quello che si doveva realizzare. Se il donatore lo coinvolgo nella maniera del mecenatismo, di soldi li darà anche di più. Voi fundraiser dovete fare leva su questo. Se avviene un coivolegimento pieno della persona poi arrivano anche i soldi.

Il futuro del nonprofit

La necessità di ripensare il settore, oggi più che mai, è fortissima. Stiamo vivendo un momento unico della storia dell’umanità. Le barriere sono abbattute, non ci sono più i confini, siamo tutti sulla stessa barca, oggi più che mai. Trasformiamo questa tempesta in una grandissima opportunità di cambiamento e trasformazione del nonprofit. Sta a noi decidere se far venire fuori un nonprofit migliore o restare fermi dove siamo. Dipende solo da noi. E tu? hai cambiato la tua idea di nonprofit dopo questo confronto?